Sergio Mattarella a una riunione straordinaria della Consulta (foto LaPresse)

La Consulta minacciosa e la nuova sottomissione della politica

Sergio Soave

L’argomento secondo cui non si può votare finché non ci siano leggi elettorali convergenti per i due rami del Parlamento viene brandito proprio da chi ha creato questa situazione con la sentenza creativa in materia elettorale

La sovranità popolare può smentire, come ha fatto legittimamente nel referendum, il governo e il Parlamento, ma non riesce a divincolarsi dalle pastoie degli azzeccagarbugli che vogliono decidere sul se, sul come e sul quando essa potrà eleggere i suoi rappresentanti. Fino a pochi mesi fa era il Parlamento a decidere dei sistemi elettorali. La Consulta aveva stabilito che in questa materia non si poteva intervenire per via giudiziaria perché il sistema deve comunque essere in grado di dare la parola agli elettori. Poi, inopinatamente, ha cambiato opinione e ha assunto una sorta di supplenza del potere legislativo, dettando una nuova legge elettorale (sostanzialmente proporzionale) per il Senato. Così si creava una contraddizione tra i meccanismi di voto dei due rami del Parlamento con evidenti conseguenze nefaste sulla possibilità di dare vita a maggioranze omogenee. E’ proprio questa contraddizione, creata dalla Consulta, a spingere il presidente della Repubblica (che di quel consesso è stato membro) a negare alle forze politiche che in larga maggioranza lo propongono, il ricorso a elezioni politiche anticipate. Insomma, l’Italia è in ostaggio degli azzeccagarbugli, la Costituzione è stata di fatto modificata e ora la sovranità appartiene ai giudici, che possono far aspettare il popolo finché non hanno deciso loro come e quando può esercitare il suo diritto elettorale.

 

Tra l’altro, tutto questo meccanismo regge solo per la compiacenza subalterna dell’opinione pubblica e dei soggetti politici. Si possono benissimo sciogliere le camere e si può votare con le leggi in vigore, che anche se poi fossero giudicate illegittime in qualche parte dalla Consulta non priverebbero le camere elette della loro legittimità, così come accade a quelle attualmente insediate con un meccanismo elettorale poi censurato dalla Corte costituzionale. Oppure le forze politiche potrebbero decidere una modifica delle leggi elettorali in base alle loro convinzioni e alle possibilità di accordo parlamentare, senza bisogno di aspettare una sentenza della Consulta che sarebbe a quel punto ininfluente. Invece sembra naturale a tutti che su una materia squisitamente politica come il meccanismo di voto e il proseguimento o meno della legislatura debbano decidere in primo luogo i giudici e non i rappresentanti del popolo nelle istituzioni parlamentari e nelle sedi politiche. Quello che sta accadendo è un altro passo del colpo di stato giustizialista, della deformazione dell’equilibrio tra i poteri desso stato, che in forma più o meno strisciante è in corso da un quarto di secolo. Questo processo vedrebbe una straordinaria accelerazione se il blocco politico determinato dalla Consulta, combinato con gli eccessi di cautela del Quirinale, portassero a formare un governo presieduto dall’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, che rappresenterebbe plasticamente il trionfo del giustizialismo sulla sovranità popolare. E’ stato il consenso raccolto da una federazione di centrodestra raccolta intorno a Silvio Berlusconi a introdurre, con la democrazia dell’alternanza, un antidoto al golpe giustizialista. E’ in quel quadro che si è espressa l’alternativa di centrosinistra guidata da Romano Prodi.

 

Quando ambedue le proposte si sono mostrate insufficienti, Giorgio Napolitano ha tentato, prima con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, di realizzare intese politiche ampie in grado di realizzare riforme tese a rafforzare il sistema politico. Che il sistema dell’alternanza produca fenomeni di leaderismo e di personalizzazione è persino ovvio, è quello che accade in tutte le democrazie, nelle quali a una leadership se ne contrappone un’altra e a decidere sono gli elettori, non una congiura di palazzo guidata da soggetti giudiziari. Quello che appare davvero paradossale è che i leader del centrodestra, cioè dello schieramento che ha il merito di aver imposto la democrazia dell’alternanza fermando o almeno rallentando la deriva giustizialista, ora finiscano con il diventare inconsapevolmente complici del compiersi di questa parabola.

 

Se non si identifica quale sia il vero pericolo per le istituzioni e per la democrazia, se nell’esercizio legittimo dell’opposizione si insiste anche quando l’avversario è stato sconfitto, lasciando spazio a ambigue possibilità di gestione “istituzionale” di una crisi, si finisce col portare acqua al mulino della negazione giustizialista della sovranità popolare. Si può fare un accordo politico per un governo politico che cambi le leggi elettorali, oppure si può chiedere lo scioglimento immediato delle Camere, con il governo battuto che resta in carica per gli affari correnti. Quello che è pericoloso fare è rifiutare sia una soluzione sia l’altra per lasciare degenerare la situazione, accettando l’indebito ruolo arbitrale della Consulta e favorendo il ricorso a una soluzione governativa spuria che avrebbe il senso di una definitiva sottomissione della politica all’esorbitante strapotere giudiziario.

 

L’argomento secondo cui non si può votare finché non ci siano leggi elettorali convergenti per i due rami del Parlamento viene brandito proprio da chi ha creato questa situazione con la sentenza creativa in materia elettorale. Sergio Mattarella lo sa benissimo e deve essere aiutato a uscire da questa trappola che finirebbe altrimenti per ingabbiare non solo la fine di una legislatura già nata monca, ma l’intero sistema politico. La politica ha ancora la possibilità di prevalere, di giocare il suo ruolo di interprete legittimo dell’interesse nazionale. Lo può fare dando la parola all’elettorato immediatamente o decidendo autonomamente e con un sufficiente grado di unità come stabilire regole meno divergenti per l’elezione dei due rami del Parlamento. Se invece abdica alla propria responsabilità per passare la mano a un ex magistrato che con un mandato impreciso finisce con il sottomettere le scelte che spettano alla politica alle sentenze invasive della consulta, compie un passo ulteriore e forse irreparabile in direzione dello squilibrio tra i poteri e gli ordini dello stato.