Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Dirlo è vietato, ma Berlusconi è pronto al governo di unità nazionale

Salvatore Merlo

Forza Italia ha scritto una nuova legge elettorale, “ma Renzi deve venire con il cappello in mano”

Roma. E Silvio Berlusconi cosa fa? Aspetta. E’ pronto a sostenere un nuovo governo, anche se dirlo è vietato, anzi vietatissimo. Eppure il Cavaliere è pronto, è finalmente arrivato quel momento per il quale Gianni Letta ha lavorato negli ultimi mesi, portando persino Berlusconi al Quirinale, facendolo annusare dal presidente Sergio Mattarella, tutto per arrivare a questo momento liberatorio, finalmente: la sconfitta di Matteo Renzi al referendum, le trattative sulla legge elettorale, il momento del bisogno e della debolezza per il ragazzo spavaldo. E allora Berlusconi è pronto a votare persino la fiducia, se necessario, ma alle sue condizioni non a quelle di Renzi, e senza alcuna fretta, “qui le carte ora le diamo noi. Vediamo cosa dice il presidente della Repubblica. Se arrivasse un appello alla responsabilità non cadrebbe nel vuoto”. E così Renato Brunetta e Paolo Romani, i due capigruppo che accompagneranno Berlusconi da Mattarella per le consultazioni, hanno una proposta di riforma della legge elettorale, già scritta, un proporzionale corretto, “un ragionevole equilibrio tra rappresentanza e governabilità”, niente super premio di maggioranza ma nemmeno un proporzionale puro. Il testo l’hanno ufficiosamente sottoposto ai loro interlocutori nel Pd ma – dicono, sorridendo e fregandosi le mani – “non si sa più chi sia il Pd.

 

 

Il Pd è ancora Renzi? O forse, piuttosto, il Pd è Dario Franceschini? Con chi dobbiamo parlare?”. E sono frasi palindrome, pronunciate con il sorriso di chi si sente preso per il gomito dalla buona sorte e si lascia fiduciosamente sospingere verso gioiose scadenze (“se si fanno le larghe intese la legislatura deve arrivare a scadenza naturale”, ha detto ieri Ettore Rosato, capogruppo del Pd, di fatto smentendo Renzi e forse, chissà, interpretando il pensiero di un’ala del partito in uscita dal renzismo). Parole maliziose. Come anche l’allusione degli uomini di Forza Italia a Franceschini, sempre lui: “Renzi lo teme, Franceschini. Sta facendo carte false per non vedere sorgere una vera alternativa a sé stesso… Potesse, si farebbe dare il reincarico”. E ancora risatine, un misto di soddisfazione e rivalsa, dopo mesi in cui ad Arcore hanno avuto l’impressione di prendere solo schiaffi dal “bulletto di periferia”.

 

“Adesso la responsabilità non è nostra”, dicono i colonnelli di Forza Italia, con l’aria di chi ha tutto il tempo del mondo e aspetta solo che la mela matura gli caschi tra le mani. “E’ Renzi che ha ficcato la legislatura e il paese in questo guaio, se la deve sbrigare da solo. A meno che…”. A meno che quelli del Pd non vengano a chiedere aiuto al Cavaliere, ma stavolta con il cappello in mano e con i buoni uffici del presidente della Repubblica, accettando tutte le richieste, a cominciare, ovviamente, dalla riforma proporzionale (“ma corretta”) con la quale Berlusconi pensa di potersi garantire una solida e placida golden share nel prossimo Parlamento. Dunque la proposta che non si può rifiutare, quella di un governo “con tutti i partiti o si va a votare con la legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale”, pronunciata ieri da Renzi, viene respinta con un sorriso di sufficienza, con l’aria di chi non si beve il bluff: “Renzi non è nelle condizioni di minacciare niente”, dicono, “ed è ovvio che non si può votare con la legge modificata dalla Corte costituzionale. Sarebbe un pasticcio, un’ammissione di debolezza inaccettabile della politica. Lo chieda a Mattarella”.

 

Ma comunque vada a finire, tra Arcore e Palazzo Grazioli, sanno una cosa: con tre poli, con i tre poli che si sono confermati anche nelle urne referendarie, con l’Italia tripartita, la prossima legislatura, tolto di mezzo l’Italicum al Senato e il premio di maggioranza, sarà un’altra grande coalizione, inevitabilmente, un altro patto del Nazareno (forse), ma con equilibri di forza, e interlocutori probabilmente tutti nuovi, un panorama ancora imperscrutabile, di cui adesso si possono cogliere soltanto vaghi indizi. E d’altra parte Berlusconi coccola non da oggi l’idea, inconfessabile, tutta carsica e complicata, umorale e fantasiosa, di scaricare la Lega lepenista e sbrigliata di Matteo Salvini, o comunque il Cavaliere coltiva l’ambizione d’essere indipendente dalle mattane e dalle sparate del suo giovane alleato. Ma ogni cosa, adesso, passa dalla riforma della legge elettorale, dalla disponibilità di Renzi a cedere, a farsi morbido e berlusconianamente concavo, perché il Cavaliere non ha nessuna fretta di correre in aiuto del “ragazzino che mi ha truffato”, al quale intende al contrario impartire, dopo la sonora sconfitta referendaria, anche un’altra lezione di umiltà, quella dell’anticamera. “Che aspetti”. E allora tocca al segretario del Pd, o ai suoi emissari, bussare al portone di Arcore, dove Denis Verdini si è già messo in fila: toc toc. “E non è detto che gli si apra la porta”. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.