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Esterodirezione della politica

Il referendum si vince con gli italiani all'estero. Ecco i portatori di voti

Redazione
Le mosse di Renzi e di Verdini, le gite a Londra di Di Maio. Il Pd è un po’ più forte. Ma molti voti sono all’asta. Ecco chi sono i feudatari del voto italiano fuori confine per la chiamata referendaria del 4 dicembre.

Roma. Era la vigilia delle elezioni 2006, Fabrizio Cicchitto, Denis Verdini e Sandro Bondi andarono da Silvio Berlusconi, allarmati: “Guarda che con questa storia del voto all’estero noi perdiamo, la sinistra ha più rapporti con le associazioni degli immigrati, è più organizzata”. E il Cavaliere: “Avete ragione. Ma chi lo dice a Tremaglia?”, il vecchio Mirko Tremaglia, l’anziano ministro che fortissimamente volle il voto per gli italiani all’estero. Finì così, finì che il Pdl perse le elezioni, di appena ventiquattromila voti, e determinanti furono proprio quei voti dati all’estero. Da allora tutti i partiti, in tutte le elezioni (compresi i referendum) devono fare dunque i conti con questi 4.636.647 connazionali iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire). E da allora, tra code, ritardi, plichi non consegnati, schede dimenticate, certificati persi e voti che viaggiano per il mondo in balìa di intermediari, patronati, associazioni e agenzie di spedizione, non è cambiato molto. La sinistra, grosso modo, è rimasta più forte, e su quei voti, dei quali si esprime solitamente appena il 30 per cento (ottocentomila votarono al referendum sulle trivelle, un milione e duecentomila votarono alle politiche di febbraio 2013), si ingaggia una gara all’accaparramento, che passa dalla conquista di alcuni personaggi chiave, capaci di mobilitare consenso e pacchetti di voti, figure, a volte, tra l’improvvisato e l’oscuro. In questi mesi, tra i più attivi, nell’avvicinare questi “grandi elettori” dell’estero, si è segnalato Denis Verdini. Che è per il Sì. Ma anche Matteo Renzi ci ha lavorato.

 

E per sapere chi conta all’estero – Renzi e Luca Lotti hanno calcolato che il referendum si gioca sul filo di un milione di voti (che sono all’incirca quelli dell’estero) – basta andare a vedere chi i voti li ha presi. Quasi tutti del Pd. Marco Fedi (in Australia), Fabio Porta (in America latina), Renato Turano (in America del nord), e poi Laura Garavini, Gianni Farina e Claudio Micheloni (in Europa). Sono questi i parlamentari che hanno preso più preferenze di tutti all’estero, sono questi i deputati più collegati con l’associazionismo degli immigrati e dei discendenti degli immigrati italiani, comunità che gestiscono circoli culturali, scuole private e persino cliniche. E sono tutti (quasi) schierati per il Sì, tranne Micheloni, che è invece con la sinistra del No. Questo gruppo, per intendersi, come dice Eugenio Marino, responsabile “Italiani nel mondo” del Pd: “E’ stato determinante per la vittoria del centrosinistra alle politiche del 2013”. E potrebbe esserlo anche per il referendum. Così, infatti, intorno a ciascuno di questi deputati, da tempo, da mesi, è cominciato un corteggiamento delle correnti interne al partito. E Renzi ne ha agganciati di più, come si è visto.

 

Tuttavia nel Parlamento italiano ci sono feudatari del voto all’estero che di sinistra non sono, e che non sono eletti nel Pd. Uno di questi, anzi il più importante di questi, si chiama Riccardo Merlo, un signore nato cinquantaquattro anni fa a Buenos Aires, praticamente sconosciuto ai più in Italia eppure capo di un “partito” argentino che si chiama Movimento associativo italiani all’estero (Maie), che lo ha ininterrottamente rieletto a Montecitorio dal 2006 a oggi, dove ha sostenuto, con assidua e indifferente pendolarità, sia Prodi sia Berlusconi, sia Letta sia Renzi. E dunque negli anni è stato alleato di Pier Ferdinando Casini e dell’Udc, poi di Scelta civica, e in fin e è approdato, con il suo gruzzolo di eletti in Sudamerica, nello stesso gruppo parlamentare di Verdini. Così oggi, Riccardo Merlo sostiene il governo di Renzi, ma sul referendum non si è ben espresso, lui che pure, in campagna elettorale per le politiche è molto attivo e molto presente. E questo suo silenzio insondabile e allusivo – date le caratteristiche del personaggio, che è figlioccio politico di quel famoso senatore Pallaro, argentino della Pampa che nel 2006 con i suoi cambi di fronte originò il noto fenomeno del “pallarismo”– viene interpretato, secondo logiche certo di malizia, come un mettersi all’asta: chi offre di più, il partito del No o quello del Sì? Chissà. Molti “dirigenti” del suo “partito”, il Maie, sono esplicitamente per il No (Gian Luigi Ferretti e Giovanni Rapanà), ma molti altri sono per il Sì. Un po’ di qua e un po’ di là. D’altra parte la corsa per conquistare i voti all’estero è forsennata. Il governo aveva annunciato a ottobre lo stanziamento nella legge di Stabilità di cinquanta milioni di euro “per la promozione e lo sviluppo della cultura e della scienza italiana nel mondo”. E all’estero sono andati (o andranno) tutti: da Zaia a Salvini, da Di Battista a Di Maio, che oggi è a Londra. Non a caso.