Gianfranco Rotondi (foto LaPresse)

Gli incorruttibili cretini fanno venire voglia di dire "era meglio la casta"

Salvatore Merlo
Lontani dalla dissipazione politica, ma anche dalle modeste e auree virtù borghesi, lontani dal professionismo castale, ma anche dalla professionalità tecnica, gli scamiciati fanno rimpiangere le patologie clientelari. C'è un libro, delicato e ironico, che ne parla…

E subito il pensiero corre ai due estremi emblematici: il virtuoso, incorruttibile Robespierre, e il principe di Talleyrand, sfacciato tangentista, scialacquatore impunito, che teneva al suo servizio il miglior cuoco d’Europa. Con chi avreste preferito avere a che fare? “In fondo la politica non è altro che un certo modo di agitare il popolo prima dell’uso”, diceva Talleyrand, ch’era uomo di paradossi cinici e sfrigolanti, capace di ludica disinvoltura, tanto adorabilmente immoralista ed elastico da essere sopravvissuto a tutti i regimi, monarchici e rivoluzionari, bonapartisti e codini. Nessuno può esitare nella scelta. E così la pensa evidentemente anche Gianfranco Rotondi, ex ministro con Silvio Berlusconi, democristiano irpino e fuori tempo, uomo mite e spiritoso, la cui levità, il cui modo scanzonato di condursi nel marasma agitato della politica italiana, così lontano e inattuale dal ribollire dei tempi, deve averlo spinto a scrivere questo libro ironico, eppure incrinato di malinconia, che s’intitola “Meglio la casta”, ovvero “i barbari sono alle porte, dopo sarà inutile voltarsi indietro per concludere che era meglio prima”. Che è un po’ un paradosso, e un po’ no, perché lontani dalla dissipazione politica, ma anche dalle modeste e auree virtù borghesi, lontani dal professionismo castale ma anche dalla professionalità tecnica, gli scamiciati che hanno preso il posto dei gessati grigi, tra le altre cose non sono simpatici ma grevi, torvi, trovano la loro misura nella dismisura.

 

E certo Alessandro Di Battista non è quel gigante di Robespierre (magari lo fosse), e Virginia Raggi non è – e come potrebbe? – Olympe de Gouges, a entrambi manca infatti, per così dire, quantomeno, qualche lettura. Ma se la rivoluzione dell’antipolitica, la retorica della trasparenza, la demolizione di codici e simboli alla fine si risolvono nell’ormai noto “complotto dei frigoriferi” o nella “lotta degli scontrini”, nelle urla e nelle felpe, se cioè la rivoluzione alle vongole resta appesa, come in una bolla d’aria rancida, alla visione pensile d’un generico sentimento di sovreccitazione compiaciuta degli eccessi, uno stato d’ottundimento in cui emotività e incompetenza, grettezza e ottusità prevalgono su ogni cosa, tra ruspe, autobus sfasciati e cumuli di monnezza all’angolo di strada, allora, come scrive Rotondi, “alla fine uno rimpiange pure quelle patologie, come la clientela. Perché dopo è arrivato il diluvio”. Ed ecco dunque la domanda improrogabile: a che serve avere una casa di vetro se al di là di quelle limpide pareti sgobba in bella vista, una schiera di strani, forse persino pericolosi pasticcioni improvvisati? Ai tangentisti della casta puoi sempre mandare i carabinieri. Ma con i cretini, con gli incorruttibili cretini che scattano e urlano come trafitti da una supposta di pepe, con loro come si fa?

 

E così Rotondi, tra una citazione di De Mita e di Moro, di De Gasperi (e persino di Remo Gaspari), riassume la tragedia di un mondo tramontato, la cui morte ha generato la Seconda Repubblica di Berlusconi e di Prodi, e poi di Grillo e di Renzi, quel mondo arrogante, corrotto, ma solido, alfabetizzato e tuttavia senza speranza. Un mondo che in parte si è suicidato. “Di fronte a un attacco alle proprie prerogative, la politica ha due possibilità: una risposta ferma a costo di cocente impopolarità; oppure il profilo basso, l’assecondamento a dosi omeopatiche delle ragioni degli aggressori nell’illusione promessa dall’adagio siciliano ‘calati juncu che passa la china’”. Ma nel vischioso acquitrino dell’emotività collettiva il giunco che si piega viene sempre trascinato via dalla piena, cancellato, la voce della civiltà si fa un birignao infantile e le moltitudini sono pronte per dare nuove mazzate.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.