Beppe Grillo alla festa nazionale del Movimento 5 Stelle a Palermo (foto LaPresse)

Sette anni di bolla grillina posson bastare, dopo Roma

Claudio Cerasa
Sono passati 2560 giorni dal primo vaffa e ci sono un paio di ragioni per cui è evidente che i grillini si impiccheranno presto su una corda creata da loro.

Lo scorso quattro ottobre il Movimento 5 stelle ha festeggiato i sette anni dalla sua nascita e sette anni dopo (o 2560 giorni per farvi sentire peggio) aver esordito sul palcoscenico della politica con un messaggio profondo e carico di raffinate sfumature (andate tutti a fanculo) il bilancio del grillismo oggi è facilmente sintetizzabile con una favolosa massima di Samuel Beckett: “Ho provato, ho fallito, Ma non importa, riproverò: fallirò meglio”. Ci sono almeno tre strade per inquadrare la bolla del grillismo. La prima riguarda la retorica. La seconda riguarda la pratica. La terza riguarda l’egemonia. Sulla terza strada si può dire che almeno su questo punto il grillismo ha ottenuto un successo rotondo: il morbo dell’antipolitica che il movimento 5 stelle cavalca con successo da diversi anni, dal suo primo vaffanculo, che non si scorda mai, è diventato una sorta di patrimonio condiviso e accettato dalla stessa politica, e anche i partiti e i politici più lontani dal movimento 5 stelle è come se avessero accettato il fatto che l’antipolitica non la si può sconfiggere del tutto, ma bisogna anche assecondarla. La campagna sul referendum, da questo punto di vista, ci offre una lezione non banale: un premier nemico del grillismo che decide che per combattere il grillismo è necessario puntare forte sui messaggi grillini.

 

E così: la riforma costituzionale è importante per molte ragioni, ma soprattutto lo è perché riduce i costi della politica, taglia le poltrone, taglia le immunità dei parlamentari. In sintesi: vota sì contro la casta. Lo stesso errore, da un certo punto di vista, che il Pd ha fatto con Ignazio Marino: fatto dimettere dal Pd dalla carica di sindaco di Roma non per le sacrosante questioni legate all’efficienza ma per questioni legate alla moralità, l’inchiesta sugli scontrini, santo cielo. L’egemonia esercitata dal grillismo – egemonia di cui sono vittime e artefici anche i giornali, che negli ultimi giorni sono riusciti ad arrivare al paradosso di condannare la sindaca di Roma, Virginia Raggi, non per la sua inefficienza e la sua incapacità a governare ma per aver nientemeno che tradito i princìpi grillini, per essere diventata una della casta come tutti gli altri – ha una sua ricaduta anche nel mondo del centrodestra e risulta francamente incredibile come sia possibile che i leader conservatori italiani non capiscano che rincorrere il grillismo significa semplicemente fare il gioco dei grillini (se vince il no al referendum, vince Grillo, non vince Brunetta).

 

Spiegata la chiave dell’egemonia restano le altre due chiavi da affrontare per fare un bilancio della bolla grillina. La retorica, si diceva. E questo forse è il punto più importante: dopo sette anni, il grillismo si ritrova ostaggio della sua stessa retorica, delle sue balle sulla trasparenza, sul pauperismo, sulla democrazia diretta, sul giustizialismo, sul movimentismo, sull’anti correntismo, e ora che è costretto a governare, tranne in rarissimi casi, non può non riconoscere che, se si vuole governare, non si può essere trasparenti, non si può essere pauperisti, non si può far votare ogni delibera su Facebook, non si può considerare colpevole fino a prova contraria un assessore, un sindaco o un consigliere comunale. La retorica del grillismo è destinata a diventare il cappio che terrà in ostaggio il Movimento 5 stelle e qui arriviamo alla terza chiave di lettura: il governo. I disastrosi primi cento giorni di Virginia Raggi – stendiamo un velo pietoso e molto divertito su come i 5 stelle siano diventati a tal punto un partito da essere devastati da una lacerante e comica guerra tra correnti – possono sorprendere solo gli ingenui che avevano creduto che il Movimento 5 stelle potesse essere qualcosa di più di quella periodica pulsione qualunquista che si registra in Italia dai tempi del commediografo Guglielmo Giannini (che nel 1944, quando fondò il giornale da cui nacque l’uomo qualunque, che al posto di una gigantesca V aveva come simbolo una gigantesca U, usò parole da vaffa day: “Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole”). Il disastro di Roma arriva dopo altri disastri disseminati in giro per l’Italia: a Parma, prima grande città conquistata da Grillo, il Movimento 5 stelle ha perso il suo sindaco; a Comacchio il sindaco grillino, Marco Fabbri, è stato cacciato; a Gela è stato cacciato un altro sindaco, Domenico Messinese; a Quarto, stessa storia, e altro sindaco cacciato. Difficile fare previsioni su cosa succederà a Roma, perché il destino del movimento 5 stelle è legato anche al destino del referendum. Più facile dire però che se Roma sarà come Parma, Comacchio, Gela e Quarto non ci sarà una seconda possibilità per fallire meglio, come direbbe il grande Samuel Beckett.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.