Beppe Grillo (foto LaPresse)

Me ne vado, anzi no. Tutte le giravolte del Grillo strappato alla pantofola

Marianna Rizzini
Per Grillo non vale la regola dell’Africa di Veltroni (dì una volta che te ne vai e ti accuseranno per sempre di incoerenza se resti). L’ex comico, infatti, da quasi quattro anni usa il canovaccio dell’addio annunciato e poi ritirato come abituale manovra calmante o come arma di stordimento di massa.

Roma. C’è chi, per aver detto una volta di voler andare in Africa al termine del mandato (Walter Veltroni, nel 2001, quand’era sindaco di Roma), non s’è più scrollato di dosso l’immagine di colui che dal campo di battaglia vagheggia l’altrove (e ogni volta che qualcosa andava storto – beghe nel Pd, corsa elettorale finita male – c’era sempre qualcuno che gli ricordava: “A Veltro’, ma non dovevi andare in Africa?”). Tanto che alcuni illustri compagni di partito, Massimo D’Alema in testa, si sono ben guardati dal dire cose definitive sul proprio ritiro, restando magari sul vago (qualche accenno alla vita tranquilla da produttore di vino e poi, nel momento di fulgore della rottamazione renziana, la frase palindroma: “Lascio volentieri il Parlamento, la politica si può fare anche fuori”). E adesso che Beppe Grillo, sul palco di Palermo, ha detto “io farò il capo politico… ora sono da solo… ci sono a tempo pieno”, gli si potrebbe certo far notare, come in molti hanno fatto sui social network, “caro Beppe, avevi appena detto il contrario” (e cioè, in gennaio, “faccio un passo di lato”).

 


Walter Veltroni (foto LaPresse)


 

Tuttavia sarebbe inutile, ché per Grillo non vale la regola dell’Africa di Veltroni (dì una volta che te ne vai e ti accuseranno per sempre di incoerenza se resti). L’ex comico, infatti, da quasi quattro anni usa il canovaccio dell’addio annunciato e poi ritirato come abituale manovra calmante (degli animi esacerbati a Cinque stelle) o come arma di stordimento di massa (per giornalisti, blogger, attivisti sul punto di cambiare casacca). E ha cominciato presto, addirittura nei giorni del Natale 2012, quando girava l’Italia in camper per lo Tsunami tour, ma già aveva dovuto far fronte, con video notturni da casa sua ed espulsioni, alle prime avvisaglie di insubordinazione della truppa (i casi Favia e Salsi, per esempio). E da Spoleto, una sera, prima di lanciarsi sulla folla che lo avrebbe retto sulle braccia come un santo o un eroe, aveva fatto capire che il suo impegno c’era, sì, ma avrebbe potuto anche non esserci (“potevo anche fregarmene”, diceva con l’aria del pensionato strappato al giardinetto, “potevo fare il vecchio ricco”, stare “in pantofole” e invecchiare sul sofà – invece sono qui).

 

Ma quel pensiero sotteso di un’Africa psicologica, e quel vagheggiamento del teatro abbandonato per l’arena elettorale, diventavano grido di guerra dopo la Befana (7 gennaio 2013): “Torno a fare le mie cose”, diceva Beppe al manifestarsi delle prime difficoltà esterne: la concorrenza dell’ex pm Antonio Ingroia, che nel gennaio 2014 ancora pareva politicamente competitivo, l’interessamento di Antonio Di Pietro, sostenitore di Ingroia, per i grillini dissidenti, i punti percentuali (sei o sette) persi nei sondaggi. Poi c’era stato lo Tsunami vero, con trionfale ingresso in Parlamento. Ma l’avvitarsi degli “uno vale uno” tra streaming e assemblee aveva presto ispirato a Grillo un nuovo sogno pensionistico: nell’ottobre 2013 aveva detto infatti che se gli italiani “avessero sostenuto” il governo Renzi alle Europee della primavera successiva lui se ne sarebbe andato, concetto ripetuto nel gennaio 2014: “Questa è una guerra. O vinciamo o perdiamo. E se perdo io me ne vado”. (Si ricorda lo sfortunato hashtag #vinciamonoi, poi scontratosi con il 40 per cento renziano).

 

Tuttavia Grillo era rimasto in campo, anche se con un certo distacco. Fino all’ultima dichiarazione d’addio nel gennaio 2016, sul Corriere della Sera, in concomitanza con l’avvio del suo nuovo tour teatrale: “Ho voglia di riprendermi la libertà”, diceva. E c’era chi, dopo le amministrative di giugno, aveva pensato: magari ha fatto bene, magari non sentendolo gridare “vaffa” gli elettori antipolitici ma moderati hanno votato in massa Virginia Raggi. Ma è già ora di dietrofront, e la pantofola può attendere.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.