Il premier Matteo Renzi

La ruota del #ciaone

Redazione
Il fenotipo del renziano collettivo non brillerà per educazione e cultura, d’accordo, ma finiamola qui con le denunce indignate, i ditini alzati e i sopraccigli increspati per quel #ciaone con il quale l’intendenza del principe fiorentino ha maramaldeggiato su Twitter nei confronti dei referendari sconfitti.

Il fenotipo del renziano collettivo non brillerà per educazione e cultura, d’accordo, ma finiamola qui con le denunce indignate, i ditini alzati e i sopraccigli increspati per quel #ciaone con il quale l’intendenza del principe fiorentino ha maramaldeggiato su Twitter nei confronti dei referendari sconfitti. Foss’anche stato – e non lo era – uno sberleffo rivolto non soltanto agli organizzatori No Triv, non per forza concentrato sul grugno torvo di Michele Emiliano, ma scagliato su quell’indecidibile popolo dei 13 milioni di votanti: e allora? Allora bisogna saper cogliere una sopraggiunta mutazione antropologica, l’irrompere di un infantilismo ludico nel tessuto vitale della comunicazione contemporanea, il predominio  dell’irrisione corriva come habitus coessenziale ai socialnet. Hai voglia a dire che certe frasi si addicono più ai tifosi delle curve pallonare – e lo abbiamo detto anche noi – che ai rappresentanti della così detta classe dirigente. Ma il punto è che non va più così, per ragioni appunto antropologiche, anagrafiche e culturali perfino. Il fenomeno non riguarda solo la politica, dove peraltro una certa grossierité s’è fatta largo da circa un ventennio, ma tocca anche lo sport e la società delle lettere e quella dello spettacolo.

 

Anche a Palazzo, perciò, non è più tempo per contese raffinate, insulti mascherati e allusioni enigmatiche per intelletti sopraffini. Difficilmente sentirete dire dalle nuove generazioni frasi palindrome come quella che, per fare un esempio a corto raggio, pronunciò il dc Marco Follini parlando del suo ex socio e amico Pier Ferdinando Casini: gli voglio lo stesso bene che lui vuole a me. Perché è uno stilema che non si porta, esige strumenti concettuali che rallentano il dai-e-vai verbale e addormenta il gusto d’infierire sul nemico di turno. I vincitori di oggi si trastullano con giochi di fanciulli privi di sottigliezze e manierismi. E’ bene abituarsi a una certa ruvidezza derisoria, maleducata perfino, che condanna all’inferno le emozioni dei permalosi e le umbratilità dei sedicenti piccoli o grandi Gatsby. Il teppismo della parola è sempre esistito, nel paradigma di ogni ordine costituito, ma se prima era la condanna degli artisti o dei marginali adesso è anche un tratto distintivo degli oligarchi.

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