Roma senza sangue

Salvatore Merlo
Da dove nasce il collasso economico-politico della Capitale? Ovvio: non c’è più niente da distribuire. Le elezioni e la fine di clientele e potentati. Inchiesta sull’ingovernabilità di un gigante senza forma.

A Roma è tutto saltato per aria, come nella caotica suburra disegnata qui a fianco da Vincino: un po’ per consunzione, per esaurimento naturale di un modello economico sballato, e un po’ per intervento della magistratura, per quel che si può definire eccesso di scandali. “Non c’è più il sistema trentennale di controllo politico-economico. Anche le figure chiave della città si sono eclissate”, dice Luigi Bisignani, che il potere romano lo ha conosciuto e accarezzato, sempre in quello stato di miracolosa discrezione con la quale si contattano gli avversari, o gli alleati, per siglare un accordo, un patto, sciogliere un negoziato. “Prima ha chiuso il partito della spesa pubblica, perché non c’erano più soldi da spendere. Poi ha cominciato a operare il partito del privilegio: poche risorse distribuite a pochi. Ma anche questo è finito. Chiuso per bancarotta fraudolenta”, dice Francesco Storace, l’ex governatore del Lazio, che pure quel sistema lo ha conosciuto da vicino. E allora le prossime elezioni comunali a Roma saranno per tutti un’incognita foresta nella quale addentrarsi con piedi cauti, un regno labirintico cosparso di trabocchetti, ma anche un’occasione e una opportunità per ricostruire un modello di città e di potere. Ammesso che i partiti siano in grado di riorganizzarsi.

 

Si vota a maggio, probabilmente, ed è tutto cambiato, un fertile campo di macerie: quelle periferie, da sempre terreno di scorribande per i cacciatori del consenso, quelle borgate decisive, quelle che furono il motore del successo elettorale di Alemanno nel 2008, e non solo, sono adesso, e forse per la prima volta dal Dopoguerra a oggi, libere dalla regola e dalla disciplina della clientela, quella che fu sin dai tempi della Dc la via cattolica alla democrazia: un sistema basato sul rapporto privato, ma ben foraggiato dal denaro pubblico e addirittura nobilitato da una ispirazione ideale, cioè dall’inserimento nello stato delle masse diseredate. “Questa città ha vissuto per quarant’anni su una logica clientelare e consociativa”, dice Stefano Esposito, senatore del Pd, ormai ex assessore ai Trasporti della giunta di Ignazio Marino. “Una logica alla quale non si è mai sottratto nessuno: la politica, la rappresentanza delle imprese, il sindacato, e nemmeno la borghesia della città. Mentre negli ultimi vent’anni, altrove, si poneva il problema di razionalizzare in chiave industriale le società municipalizzate, qui a Roma queste aziende sono state impiegate come una specie di assistenza sociale mascherata. L’obiettivo dei trasporti, per esempio, non è mai stato quello di garantire il servizio ai romani. Ma quello di garantire assunzioni. Lavoro in cambio di voti”.

 

E il sistema ha retto finché a Roma, a prescindere da chi governasse, veniva comunque ripianato il debito, in questo campo d’Agramante della lottizzazione amichevole. Racconta Umberto Croppi, che fu assessore alla Cultura dal 2008 al 2011 e lasciò il Campidoglio in rotta con Alemanno: “Fu con Veltroni che il numero delle deleghe ai consiglieri comunali aumentò, che furono creati uffici di secondo livello e nuove società municipalizzate. ‘Risorse Per Roma’, ‘Gemma’, ‘Assicurazioni di Roma’: è in quegli anni che il consociativismo diviene regola”. Ma lo era anche prima.

 

Poi è tutto esploso: 140 milioni di buco soltanto nel 2015, un debito che complessivamente oscilla tra 1,4 e 1,6 miliardi di euro. L’Atac, l’azienda dei trasporti, ha 11.800 dipendenti iscritti a tredici differenti sigle sindacali, e quando nel 2010 deflagrò la cosiddetta parentopoli di Alemanno, duemila assunti nelle municipalizzate, a scoperchiare la vicenda clientelare – per la verità inferiore agli standard storici della città, “ma la colpa di Alemanno è di essersi comportato esattamente come tutti gli altri”, dice Storace – non furono né i magistrati né i cronisti investigativi: furono frange interne al sindacato della destra, la Faisal, quelli che Storace chiama i “camerAtac”, a fotocopiare le liste degli assunti e consegnarle ai giornali. E perché lo fecero? “Perché non erano stati assunti i loro”.

 

E insomma il modello distributivo non funziona, crea scontento, privilegi, inefficienza. L’Atac negli ultimi vent’anni ha speso milioni per le assunzioni ma non ha fatto investimenti. Così l’azienda si ritrova una flotta di autobus di cui la metà sono fuori uso. E oggi che non c’è più niente da distribuire, nella città incline all’elasticità ambigua e fiduciosa nel compromesso e nello scambio, sono saltati vincoli d’amicizia, equilibri di potere, rapporti d’affari, si sono disfatte trame trentennali, perpetuate “dalla Dc fino agli odierni centrodestra e centrosinistra. Da Rebecchini fino a Veltroni. E senza soluzione di continuità”, come dice Bisignani. “A Roma la triangolazione è sempre stata questa: Vaticano-Dc-Pci. Da sempre”.

 

Ma il panorama cittadino è cambiato. Da anni non c’è più il banchiere Geronzi, e il grande macchinista delle amministrazioni capitoline, Manlio Cerroni, il monopolista privato della gestione dei rifiuti, declina tra condanne e altri guai giudiziari. Si è eclissata per ragioni anagrafiche e politiche anche la stella pur sempre eterna di Gianni Letta, è scomparsa dai radar la Confcommercio, che a Roma fu di Franco D’Amico, e anche l’Associazione dei costruttori, l’Acer, non è più quella di un tempo. E tutto questo è accaduto ben prima della cosiddetta Mafia Capitale, che è ricotta, cresta, pizzo, il grado zero dei capi briganti, il grattare l’ultimo granello rimasto: il sintomo di un’assenza di potere, di un sistema esploso e in pieno stato degenerativo. La clientela era sistema economico: orientata verso il basso e verso l’alto, verso lo scambio con i ceti popolari ma anche con il cosiddetto capitale, le grandi e potenti famiglie della città, in un intreccio perverso che ha provocato dissipazione, nanismo, desertificazione industriale e un pazzotico sviluppo urbano che ha reso ingovernabile Roma. Era il 1980 quando Franco Evangelisti, ministro della Marina mercantile, ma soprattutto scudiero di Giulio Andreotti, raccontò a Paolo Guzzanti, in un’intervista su Repubblica, quali fossero i legami tra la sua corrente e la famiglia Caltagirone, i costruttori. Rapporti di amicizia, naturalmente. L’arco di volta su cui si reggeva, e si è retto, l’intero edificio. Toti e Parnasi, Santarelli e Mezzaroma, e poi Bonifaci, Todini, Pulcini, Navarra… L’intervista cominciava così: ministro Evangelisti, lei ha preso soldi da Caltagirone? “Sì, da Gaetano. E chi se lo ricorda quanti. Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: ‘A Frà, che te serve?”.

 

Ancora prima dei protagonisti e delle comparse del minuetto mafioso capitale, ancora prima dei pittoreschi “er Cicorione”, “er Cane”, “er Miliardario”, “a Forfora”, e prima di Massimo Carminati detto “er Cecato”, a Roma c’erano i dignitari della Dc, in parte poi spazzati via da Tangentopoli, in parte riassorbiti dalla destra e dalla sinistra, da An e dalla Margherita-Pd. E come si chiamavano? Si chiamavano Ranieri Benedetto, detto “er Serpente”, Amerigo Petrucci (“er Gattone”), Italo Becchetti (“a Volpicella”), fino ad arrivare ai nuovi padroni degli anni Ottanta, a Vittorio Sbardella, “lo Squalo”: soldi nelle mutande, soldi buttati dalla finestra, soldi ovunque. E questi dignitari della Dc strapaesana e un po’ cialtronesca rappresentavano degnamente una città multiforme, ricca, felicemente corruttibile, la riassumevano al punto che la loro parlata era diventata il dialetto franco nazionale. “A Fra’ che te serve?”. Appunto.

 

Ricorda allora Walter Tocci intervistato in un libro di Francesco Erbani (“Roma, il tramonto della città pubblica”, Laterza), l’ex vicesindaco, l’ex comunista, l’uomo che ai tempi di Rutelli impresse una (breve) svolta nei metodi di governo: “Uno si comprava un pezzo di terreno, un altro se ne compra un altro, poi venivano in Campidoglio e pretendevano che il sindaco li dichiarasse edificabili, guadagnandoci un sacco di soldi senza battere ciglio. Il sindaco Petroselli, ai suoi tempi, aveva interrotto tutto questo. Poi, morto Petroselli, anche nel Pci prevalse una linea diversa, e si tornò alla mediazione con la rendita”. Il risultato è la Roma contemporanea, quella che faceva paura a Italo Insolera, l’urbanista che più di tutti studiò e spiegò la capitale agli italiani con il suo saggio del 1962 “Roma moderna” (Einaudi): Tor Pagnotta, Bufalotta, Malafede, Casal Boccone, Castellaccio, Murate, Romanina, Madonnina…

 

L’urbanistica è la disciplina che aiuta a leggere dove va il mondo. E in trent’anni Roma si è trasformata, è diventata una città a bassa densità, una delle città europee con la più alta quantità di suolo urbanizzato per abitante: circa 230 metri quadrati per ciascuno. A cavallo del Raccordo anulare, l’anello stradale che circonda la città, c’è un sistema d’insediamenti, pari ormai a due terzi della Capitale, composto di tante isole che non comunicano e non possono usufruire di un trasporto pubblico su rotaia. Pezzi di città che si aggiungono ad altri pezzi, senza connessioni. Una macchia sulla carta geografica d’Italia, cresciuta disordinatamente seguendo strane direttrici speculative, che si espande troppo e si dirada in maniera incompatibile con la densità abitativa che una metropolitana richiederebbe. Secondo il “piano strategico per la mobilità”, del 2009, questa città così estesa e mal collegata, ha 570 chilometri di strada perennemente intasati nelle ore di punta. Con una perdita di tempo, nel traffico, calcolata in circa 135 milioni di ore all’anno. La valutazione economica fatta dal comune è che la paralisi del traffico fa perdere un miliardo e mezzo di euro all’anno. E il piano regolatore del 2008 – varato in una notte – non ha invertito la rotta: fra 60 e 70 milioni di nuovi metri cubi, oltre 15 mila ettari di estensione sulle campagne. Roma ha solo il doppio degli abitanti di Milano, ma negli ultimi trent’anni il comune è diventato sette volte più grande di quello di Milano. Per la precisione il suo territorio è vasto come la somma di Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Palermo. E così oggi l’immensa periferia romana mostra spensieratamente il premio pagato all’industriosità lazzarona. L’ingovernabilità di un gigante senza forma. “Le disfunzioni vengono da lì”, dice Bisignani. “Ma bisogna anche aggiungere che tutti guadagnavano, tutti lavoravano, e nessuno era tenuto indietro. Erano tutti contenti. Ricchi e poveri. Imprenditori e operai”.

 

E’ andata avanti così, fin quando è stato possibile spendere, fare e ricevere favori. Ed ecco dunque l’incognita, che deriva oggi dall’esplosione forse definitiva di questo sistema, strozzato dai vincoli di bilancio, dalla crisi economica, dalle sante regole europee: non ci sono più partite di giro, non si fattura e non si lavora, dunque non si distribuisce, e non si riceve – in cambio – il consenso dalle masse assistite o la protezione amicale dei ricchi e potenti (“anche se – dice Storace – sono sicuro che se oggi qualcuno proponesse l’azionariato popolare nell’Acea, l’azienda dell’elettricità, si troverebbe subito il Messaggero di Caltagirone contro”). E a questo proposito bisogna allora ricordare che alle ultime elezioni europee, quelle del massimo successo di Renzi, il Pd aveva preso il 36,2 per cento (undici punti in meno che nel centro della città) e il Movimento 5 Stelle aveva il 32,7 (quindici punti in più che nel centro della città). Ecco dunque l’incertezza. Ma ecco anche l’opportunità che si spalanca, per la politica romana e per la città intera. Un’occasione, appunto, perché l’antico sistema che si è rivelato economicamente insostenibile, fonte d’inefficienza, corruttela, sprechi e pigrizie speculative sembra saltato per aria, e la città – mentre la ripresa economica inizia a fare capolino, assieme alla curiosità degli investitori internazionali – può anche tentare di entrare in quella logica di competizione moderna e di mercato che le è da sempre estranea per carattere, storia e secolare attitudine a un condursi furbo, passivo e prudenziale. Il fondo sovrano del Qatar ha comprato l’Hotel Excelsior di via Veneto. E intorno alla società Aeroporti di Roma, controllata dalla famiglia Benetton, pare si stia condensando l’interesse degli arabi di Abu Dhabi, e dei fondi d’investimento cinesi. Il problema è che la Capitale infetta ha divorato se stessa e forse si trova sprovvista delle antenne necessarie a intercettare, dirigere, accogliere, guidare questi ancora vaghi eppure attivissimi interessi: non ci sono più le banche dal tempo in cui l’ultima sopravvissuta, Banca di Roma, si è fusa in Unicredit, e non ci sono più nemmeno le grandi aziende come la Telecom e l’Imi.

 

E per comprendere il botto del modello Roma bisogna proprio andare a farsi un giro in città, e osservare i cumuli di monnezza agli angoli di via Panisperna o i cassonetti stracarichi di piazza Trilussa, girare per i parchi cittadini, come quello di Colle Oppio, non dissimili a una giungla o a una pattumiera: “La città non è sporca per ragioni episodiche, di incuria amministrativa contingente. E’ strutturalmente sporca”, dice Stefano Esposito, l’ex assessore. E perché? “Perché la clientela provoca disfunzioni”. Ed eccole allora le disfunzioni clientelari: la discarica di Malagrotta, entrata in funzione nel 1986, l’immensa cava che inghiottiva 4.000 tonnellate di rifiuti al giorno, si è esaurita, ed è stata chiusa. I rifiuti urbani vengono oggi spediti, al costo di 40 milioni di euro l’anno, verso il nord Europa, dopo un sommario trattamento nei vetusti centri di raccolta dell’Ama a Rocca Cencia e Salario. Basta che un rullo si rompa al Salario che l’intera catena dello smaltimento s’interrompa. A quel punto, finché possibile, i camion della nettezza urbana vengono utilizzati per stoccare la spazzatura che nessuno sa dove mettere. Ma appena si riempiono salta tutta la raccolta, e allora la città viene inondata di sacchetti a ogni angolo di strada.

 

In trent’anni, dal 1986 a oggi, nessuno si è mai posto il problema di cosa sarebbe successo una volta che Malagrotta – che già dall’inizio del 2000 operava in un regime di semi illegalità sanzionato dall’Unione europea – si fosse esaurita. Roma non ha termovalorizzatori, non ha inceneritori, non ha infrastrutture moderne per la raccolta differenziata. Domanda: perché? Risposta di Silvano Moffa, presidente della provincia di Roma dal 1998 al 2003: “Perché Malagrotta era di proprietà di Manlio Cerroni, e Cerroni era il campione di una corrente legata alla Margherita. Non c’è mai stato un interesse a trovare alternative. Lui imponeva le scelte, faceva quello che avrebbe dovuto fare l’amministrazione”.

 

Negli anni Ottanta a Roma esisteva la Sogein, un’azienda mista pubblico-privata che gestiva lo smaltimento dei rifiuti. Ne facevano parte i grandi appaltatori di Roma, tra cui Cerroni. Nel libro “Roma come Napoli”, Paola Campana, ex assessore nel 1985 della giunta Signorello, racconta che “la Sogein doveva gestire il primo esperimento di raccolta differenziata, il Comune la pagava per questo. Invece i rifiuti finivano tutti a Malagrotta, nella discarica. Il costo era molto inferiore e i partiti intascavano la differenza”. Quali partiti? “Tutti. La Dc e i socialisti soprattutto. Allora tutti gli appalti passavano dal tavolo dell’andreottiano Elio Mensurati e del craxiano Paris Dell’Unto. Ma dentro c’erano proprio tutti, anche i comunisti e il Movimento sociale. L’amministratore della società era Manlio Cerroni, vicino a Mensurati, uomo di Andreotti. La Sogein era un canale diretto tra Cerroni e i partiti. Anche i comunisti. Perché furono loro, la giunta Vetere, a fondare la Sogein”.

 

La magistratura non indagava, i soldi giravano, tutto veniva perfettamente distribuito. E tutti erano contenti. “Il tana libera tutti è arrivato dopo. Quando i soldi sono finiti, quando la platea dei beneficiati si è ristretta. Adesso anche la magistratura indaga”, dice Bisignani. “Adesso”, ripete. E quelli erano d’altra parte gli anni della la famosa festa in via Caldonazzo, a casa Caltagirone. Niente spiega Roma come quella festa. C’erano tutti: Andreotti, Vincenzo Scotti e Flaminio Piccoli, il capo della procura di Roma De Matteo, il comandante della Guardia di Finanza Raffaele Giudice. E poi due magistrati entrati nella storia giudiziaria degli anni Novanta: Claudio Vitalone e Renato Squillante. E ancora Virna Lisi e Nicola Pietrangeli. Un’aria greve di confidenzialità che si espandeva dappertutto. Un mondo dove niente era mai definitivo, tutto era possibile, tutto lo poteva diventare, su tutto si poteva trovare un’intesa, a tutto una soluzione. Ma intanto le pretese crescevano, s’ingigantivano, scavalcavano il senso ereditario delle proporzioni e ne stabilivano di diverse. Si sgretolava la barriera psicologica della misura, e si prendeva lo slancio che avrebbe portato la vita romana sulla via della spregiudicatezza.

 

[**Video_box_2**]Nel 1999 ci fu la prima emergenza rifiuti a Roma. Racconta Moffa: “Ero appena diventato presidente della provincia, Piero Badaloni era presidente della Regione e Francesco Rutelli era sindaco. Non esisteva un piano rifiuti. Mi ricordo che il famoso giudice Amendola ci mandò una lettera dicendo che Malagrotta presentava delle irregolarità. E insomma bisognava intervenire, sostituire la discarica, prevedere, costruire alternative. Ma nessuno si muoveva. Cerroni non aveva nessun interesse a favorirle, le alternative al suo business. Ricordo che predisposi un piano provinciale che prevedeva la costruzione di un termovalorizzatore. Arrivammo alla vigilia del Giubileo, quello del 2000, governo D’Alema. Rutelli e Badaloni incontrarono D’Alema a Palazzo Chigi, e chiesero il commissariamento. Mi tolsero i poteri e annullarono il mio piano rifiuti. Magicamente aveva vinto Cerroni. Da allora l’emergenza non si è più esaurita. E oggi l’unico termovalorizzatore del Lazio, assieme a quello di San Vittore, è a Colleferro, comune che avevo amministrato io da sindaco”.

 

E si arriva così fino ai giorni nostri, ad Alemanno, e poi a Ignazio Marino. “Mafia Capitale è un episodio importante, non voglio minimizzare”, dice Esposito. “Ma è l’1 per cento del problema. La città è arrivata al collasso perché è stata governata con metodi clientelari, e senza tregua. In questi giorni, sulla voragine Atac non si è pronunciato nessuno tranne me, Matteo Orfini e Francesco Giro di Forza Italia. E sa perché? Perché quella della clientela, verso l’alto e verso il basso, è una macchina che si ricolloca immediatamente. Nemmeno il Movimento 5 stelle ha detto una parola. La cosa è preoccupante. Ci saranno le elezioni a maggio”. Ma soldi non ce ne sono, promesse non se ne possono fare più, il Campidoglio è gravato da sessantaduemila buste paga ogni mese, di cui trentasettemila delle aziende municipalizzate: un groviglio di ottanta scatole societarie che fanno del comune di Roma il terzo datore di lavoro dopo Poste e Ferrovie. Un dissanguamento. E la rete dei grandi soggetti che hanno governato la città, quegli intrecci che – diceva Cesare Geronzi – “sono più di quanti se ne sognino le anime belle ammantate di cultura azionista”, si sono sfilacciati, strappati, confusi. “Anche i costruttori sono meno influenti. Basta guardare questo Giubileo, che sta interessando più il settore pubblico che quello privato. E’ un segno dei tempi”, dice Moffa. E forse basta citare come esempio il ridimensionamento della dinastia dei Toti, negli ultimi anni: la vendita della Galleria Colonna, delle partecipazioni in Banca Antonveneta, in Banca Leonardo, in Unicredit, in Rcs, la vendita del Palazzo della Luiss. Caltagirone possiede ancora il Messaggero, ed è ricchissimo e influente, ma guarda all’estero, o almeno così dicono: la sua Cementir produce in Turchia, in Svezia, in Danimarca. E il gruppo, che si occupa anche di gestione dei rifiuti, guarda a Istanbul e Manchester, non a Roma. Chissà. “Poteri forti non ce ne sono più in città. Ci sono micro potentati interdittivi, burocratici. Poca roba”, aggiunge Bisignani.

 

La situazione è il disastro. Marino viene dopo Alemanno che, a sua volta, venne dopo Walter Veltroni, e la situazione è così un disastro – lo stato delle cose è in un grado così sventurato – che ognuno porta a far rimpiangere il predecessore. Eppure insufficienza e declino non sono un fatto irrimediabile. Il potere a Roma si è sempre configurato come un divinità corporativa, ma che ispirava confidenza, essendo il suo verbo comprensibile a tutti grazie al primitivo detto secondo il quale comandare è meglio che fottere. Ma quel potere si è indebolito, come tutto il resto. Il sistema economico della distribuzione è irriproducibile nell’epoca dell’austerity e della solidità merkeliana, dei vincoli di bilancio e dei patti di stabilità. Quello del privilegio ha prodotto caos, inchieste giudiziarie, travolto amministrazioni. E forse soltanto una volta toccato il fondo si può finalmente premere il tasto reset.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.