Un gruppo di migranti soccorsi nel Canale di Sicilia (foto LaPresse)

Il confine dell'accoglienza

Claudio Cerasa
Che significa accoglienza? Nelle ultime settimane, con ancora negli occhi il corpo del bambino siriano sulle spiagge turche, il dibattito italiano sull’immigrazione è stato dominato da un clamoroso equivoco alimentato da una campagna mediatica caratterizzata a sua volta da una forma estrema di pensiero unico buonista.

Che significa accoglienza? Nelle ultime settimane, con ancora negli occhi il corpo del bambino siriano sulle spiagge turche, il dibattito italiano sull’immigrazione è stato dominato da un clamoroso equivoco alimentato da una campagna mediatica caratterizzata a sua volta da una forma estrema di pensiero unico buonista. L’equivoco è questo: di fronte a un esodo di proporzioni storiche, le nostre coscienze, come sembra suggerire anche la dottrina Bergoglio, devono farci aprire in modo indiscriminato non solo i nostri cuori ma anche le nostre frontiere. Nel mondo della politica – dove il cortocircuito è testimoniato anche dal fatto che nel vocabolario del presidente del Consiglio sembra essere sparita del tutto la parola “rimpatri” – il tema si lega a un problema con il quale il nostro paese dovrà fare presto i conti: è sostenibile oppure no una campagna che sta trasformando la pratica dell’accoglienza in un generico invito a ospitare qualsiasi disperato arrivi dall’altra parte del mondo?

 

Angela Merkel, ieri mattina, poco prima del fumoso discorso di Jean-Claude Juncker all’Europarlamento, ha avuto il merito di rompere l’insostenibile bolla del buonismo ricordando che l’accoglienza della Germania ha alcuni paletti fissati sul terreno della politica. Merkel, Dio la benedica, ha ricordato che “gli immigrati che si stabiliscono in Germania devono essere aiutati a imparare rapidamente il tedesco e trovare lavoro” ma soprattutto ha fatto dire a Juncker quello che i tedeschi stanno provando a fare da mesi per declinare una politica dell’immigrazione che non prescinda dal tema dei temi: governare i confini. Juncker – dettaglio non irrilevante – ha proposto di inserire nella lista dei paesi di “provenienza sicura” la Serbia, la Turchia, l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la Macedonia, il Kosovo e il Montenegro. La lista dei paesi di provenienza sicura è una lista che permette ai governi in cui arrivano i migranti di rimpatriare più velocemente tutti coloro che, non arrivando da posti insicuri, non hanno diritto ad avere l’asilo e il caso vuole che metà delle 196 mila richieste d’asilo depositate finora in Germania provengano da molti di quei paesi che oggi l’Europa vuole considerare sicuri. Ma il tema delle liste sicure non è soltanto una questione tecnica. E’ un termometro per misurare la capacità che hanno i paesi europei di mettere in pratica saggi ed efficaci governi dei confini. La storia recente ci insegna che gli spiriti xenofobi (letteralmente: paura dello straniero) che si innescano in modo naturale a fronte di ogni ondata migratoria siano proporzionali non al flusso dei migranti ma alla capacità organizzativa mostrata da ciascun paese nel gestire il fenomeno dell’immigrazione. E l’idea che il nostro paese abbia scelto di cedere alla cultura buonista del giochi senza frontiere non è un’impressione ma è un fatto legato ad alcuni precisi problemi di organizzazione. Le liste, si diceva. In Germania, in Francia, in Svezia, ovvero nei paesi che in Europa hanno al proprio interno il più alto numero di rifugiati, esiste una regola precisa che in Italia non c’è. Se un migrante si presenta in Germania o in Francia da un paese considerato sicuro, quel paese avrà la capacità di respingere con prontezza il migrante. Se un migrante (e non un profugo) arriva in Italia avrà un trattamento diverso per una ragione semplice: non avendo fatto nostra la lista dei paesi sicuri chiunque può arrivare da noi chiedendo asilo. Ogni richiesta del migrante viene valutata caso per caso, a differenza di paesi come la Germania e la Francia dove il rimpatrio non è automatico ma è molto veloce. E il cortocircuito appare ancora più evidente se si pensa ai dati delle commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste d’asilo.

 

[**Video_box_2**]Nel 2010, quando alla fine dell’estate il numero di sbarchi via mare era intorno alle 4.000 unità, le commissioni erano 20. Nel 2015, con circa 120 mila sbarchi arrivati via mare, il numero delle commissioni si è fermato a quota 40. Se a questo si aggiunge il fatto che le scellerate politiche legate a Mare Nostrum hanno contribuito a cementificare l’idea dell’inevitabile collasso dei nostri confini si capisce quali sono gli ingredienti che rendono quasi naturale la paura dello straniero in paesi come il nostro: dove l’accoglienza è sana e generosa ma dove non solo si rinuncia a colpire alla base il fanatismo che spinge molti migranti a scappare dalle loro terre ma si rinuncia anche a governare i nostri confini. E di fronte al pensiero unico buonista che tiene in ostaggio culturale il nostro paese è difficile non concordare con quanto scritto ieri da Bret Stephens sul Wsj: “Abbiamo costruito un mondo senza barriere sulla base di assunzioni errate sul futuro. Abbiamo desiderato ardentemente un nuovo ordine liberale, ma lo abbiamo preteso assai liberale e assai poco ordinato”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.