Campo Dall'Orto è nato a Conegliano il 18 novembre 1964. E’ direttore generale della Rai dal 6 agosto 2015. Prima è stato ad di Mtv, dg di la7 e vice presidente esecutivo di Viacom International Media

Parla il direttore generale

Campo Dall'Orto ci spiega come la sua Rai supererà la “dittatura degli ascolti”

Claudio Cerasa
“Avete presente Arrigo Sacchi?”. Dici Rai e ovviamente non puoi pensare solo alla televisione, alle nomine, alle reti, al cda, ai dirigenti, al pubblico, agli ascolti, agli sprechi e alle opportunità ma pensi inevitabilmente a qualcosa di più che riguarda non tanto o non solo il futuro del servizio pubblico ma quanto il futuro dell’Italia.

Roma. “Avete presente Arrigo Sacchi?”. Dici Rai e ovviamente non puoi pensare solo alla televisione, alle nomine, alle reti, al cda, ai dirigenti, al pubblico, agli ascolti, agli sprechi e alle opportunità ma pensi inevitabilmente a qualcosa di più che riguarda non tanto o non solo il futuro del servizio pubblico ma quanto, se vogliamo, il futuro dell’Italia. C’è tutto in Rai, e lo sappiamo. Il rapporto tra l’innovazione e il paese. La dialettica tra la politica e l’informazione. L’equilibrio tra il progresso e la burocrazia. La difficoltà di combinare insieme la parola “stato” e la parola “produttività”. E poi, sì, ci sono i cambiamenti della società, l’evoluzione demografica, l’organizzazione della macchina pubblica, l’accentramento dei poteri nelle mani di una persona e ovviamente ci sono anche le proporzioni che esistono fuori dalla Rai tra i partiti politici, e dunque gli azionisti del servizio pubblico. Dici Rai, allora, e ovviamente pensi all’azienda e al suo futuro ma, anche se non lo si può dire esplicitamente, quando si parla di Rai si parla inevitabilmente di qualcosa di più: si parla dell’Italia di oggi e forse quella di domani. A un mese dal rinnovo dei vertici Rai, dunque, la domanda “come diavolo sarà questa Rai?” comincia a essere importante e sempre più di attualità. La domanda l’abbiamo girata al nuovo direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, che nella sua prima intervista da direttore generale ha accettato di mettere a fuoco con il Foglio quelli che saranno i punti centrali del suo, potremmo chiamarlo così, mandato aziendale.

 

“Avete presente – dice Campo Dall’Orto – Arrigo Sacchi?”. Certo, scusi, ma con la Rai che c’entra? “C’entra. Sacchi, quando era al Milan, diceva non solo che una squadra che funziona è quella che mette insieme talento e organizzazione, ma diceva che senza organizzazione il talento rischiava di non essere determinante. Puoi essere bravo quanto vuoi ma se non hai una visione complessiva e una missione chiara sarà molto più difficile raggiungere risultati importanti. Ecco. Vorrei partire da qui: dallo schema di gioco, dalla missione: dei nomi, dei talenti, che pure saranno decisivi, ci occuperemo più avanti”. Sacchi usava le lavagnette per gli schemi: nelle sue che cosa c’è? “C’è una questione legata prima di tutto al metodo senza il quale non si può capire come dovrà essere formato l’undici titolare scelto dall’allenatore. Mi spiego meglio. Quando parlo di ‘discontinuità’ per la Rai,  parlo di un concetto semplice che riguarda in modo profondo questa azienda. L’impressione è che la Rai, e questo accade ormai da ormai molti anni, sia costantemente rimasta due passi indietro rispetto alla velocità della società. La prima missione del direttore generale non può che essere questa e per non essere troppo astratto le faccio un esempio concreto”, dice Campo Dall’Orto allungando l’indice della mano destra verso lo schermo di una tv di fronte a lui. “Vede quello schermo? Bene. La Rai, oggi, tende a identificare la sua missione  solamente con quello schermo. Tende a ragionare cioè credendo che tutto quello che viene fatto quotidianamente in questa azienda ha come unica finalità quella di andare in onda su quello schermo. Per dirlo in termini  tecnici: dobbiamo trasformare la Rai da broadcast a media company. Dobbiamo portare avanti un grande progetto di digitalizzazione culturale dell’azienda Rai per permetterle di diventare un riferimento rispetto ai comportamenti e ai linguaggi contemporanei. Provo a spiegarmi ancora meglio. Io vorrei rovesciare il ragionamento, focalizzando ancor di più l’attenzione al ruolo di editore pubblico che genera contenuto rilevante per poi valutare al meglio tutte le opportunità distributive che ormai non possono essere più  rappresentate solo e soltanto dall’apparecchio televisivo. Negli Stati Uniti, per dire, si ragiona pensando prima alla qualità del prodotto che si vuole e poi alla distribuzione. Le faccio un altro esempio.

 

Prego. “In tutto il mondo si è capito che il linguaggio scritto della fiction televisiva è stato uno dei grandi elementi di vitalità creativa che ha consentito agli editori tv di mantenere il proprio ruolo e all’industria dei contenuti di affascinare il proprio pubblico con un racconto via via più complesso. In Italia spesso si è scelto un metodo diverso, sia sui contenuti sia sulla distribuzione. Il tuo lavoro non può finire quando hai finito il prodotto ma diciamo che quando hai finito il prodotto sei solo a metà dell’opera. Per essere chiari: lei si rende conto che su 13 mila dipendenti in Rai non abbiamo una direzione che si occupi della distribuzione del prodotto digitale?”.

 

Chiaro ma è ancora poco: sulla sua ipotetica lavagnetta, direttore, vediamo al momento solo alcune frecce che indicano una direzione ma non ancora uno schema. Facciamo un passo in avanti. “D’accordo. E allora le offro qualche numero per capire meglio il contesto di riferimento su cui bisogna tararci e regolarci per il futuro. Mi piace dire spesso che la priorità di una televisione come la Rai è quella di trovare e sperimentare un nuovo tipo di linguaggio capace di essere al passo con i cambiamenti della società. E quando provo a spiegare questo concetto lo faccio mettendo in fila un po’ di dati. Vice News oggi, in pochi anni dalla sua fondazione, vale due miliardi e mezzo di dollari. Periscope, di Twitter, a cinque mesi dal suo lancio, ha dieci milioni di utenti registrati in giro per il mondo. Netflix, considerando anche gli utenti non solo americani, ha superato i 65 milioni di abbonati. Buzzfeed ogni mese porta sulle sue pagine circa 108 milioni di utenti unici solo in America e circa 202 milioni a livello globale – e nel 2014 ha ricevuto più clic da link postati sui social network che dai tradizionali motori di ricerca. E mentre nel mondo succede tutto questo, e mentre nel mondo Google – ripeto: Google – si preoccupa dal fatto che ormai le persone che ricercano informazioni sul Web lo fanno sempre di più dai social network che dai motori di ricerca, mentre nel mondo succede tutto questo, dicevo, si capisce bene come sia impensabile stare ancora qui a credere che il centro del mondo, per la televisione, sia solamente quello schermo che abbiamo qui davanti”.

 

Facciamo notare a Campo Dall’Orto che nel suo schema di gioco sembra esserci un cambiamento significativo della missione profonda del servizio pubblico: non più, dunque, come lo era in origine, uno strumento di pedagogia ma, ed ecco il salto in avanti, uno strumento legato all’alfabetizzazione digitale. E’ così? “E’ così, e lo è per una ragione elementare: non si può pensare che il compito centrale del servizio pubblico sia quello di affermare e diffondere un linguaggio primario; il compito vero oggi è quello di accompagnare le persone in un nuovo mondo provando non a diffondere un normale e ormai stra conosciuto alfabeto ma provando semmai ad anticipare una nuova forma di alfabetizzazione. Chi ragiona con la prima chiave di lettura temo pensi che sia possibile campare soltanto sfruttando la propria rendita di posizione. Il punto è che oggi, con l’arrivo di soggetti come Netflix e il cambiamento dei comportamenti di consumo di prodotti video delle persone, non esistono più e non possono esistere rendite di posizione. E anche per questo la prima rivoluzione importante di linguaggio e di metodo che dobbiamo mettere in campo non è quella di pensare alle nomine delle reti, dei tg, ai palinsesti. Per carità: molto cambierà, ovviamente, per adeguarsi a questa sfida così ardua. Ma quello che deve cambiare prima è la mentalità di chi lavora nella nostra azienda. E non si tratta di mettere in campo una discontinuità di tipo tecnologico ma piuttosto di tipo culturale. Mi verrebbe da utilizzare una parola forse abusata ma che sintetizza bene quello a cui mi sto riferendo: pop”.

 

[**Video_box_2**]Dire voglio una Rai pop, scusi, è come dire voglio la pace nel mondo o voglio un’Africa senza bambini affamati. Serve un esempio, così ci capiamo. “Essere pop, dal mio punto di vista, vuole dire essere in sintonia con la contemporaneità e vuol dire soprattutto pensare che le persone a cui la Rai deve parlare non sono solo quelle che oggi già vedono la Rai ma sono anche tutti coloro che per qualche motivo hanno deciso di non seguirci più. Spesso, l’errore di impostazione che si fa in un’azienda come questa è pensare che ci sia uno zoccolo duro di telespettatori che comunque andranno le cose ci sarà sempre – e in virtù di questo ragionamento tarare i propri messaggi non verso coloro che si vogliono conquistare ma verso coloro che non si vogliono perdere. Non dico che non sia importante non perdere pubblico ma dico che la Rai deve entrare in una nuova ottica, più inclusiva. Deve sperimentare un nuovo racconto popolare in cui non si ha paura di spiegare a chi guarda i nostri canali che i miti di un tempo non sono miti assoluti ma sono miti che vanno accostati a quelli più moderni. E un Usain Bolt, anche dal punto di vista della presa sulla nostra società, non può essere raccontato con l’idea che sia ‘il nuovo Carl Lewis’ ma va immerso nel racconto degli eroi dello sport di oggi. Ma per poter evitare questo cortocircuito, ed evitare che la Rai parli sempre alle stesse persone, è ovviamente necessario, anche qui, uno scatto di reni generazionale. Le aziende editoriali, si sa, quando comunicano raccontano in primis sé stesse, e solo attraverso il proprio filtro riescono a raccontare la realtà esterna. E mi pare ovvio che, in un’azienda che vuole conquistare i trentenni, se le persone sotto i trent’anni sono 200 su 13 mila dipendenti qualcosa debba cambiare con urgenza”. Ci siamo, direttore: è la rottamazione? “Userei parole diverse. Penso più a nuova visione, organizzazione e riorganizzazione. E forse per un’azienda come la Rai la parola giusta anche qui credo sia un’altra: riattivare”.

 

Ascoltiamo Campo Dall’Orto con curiosità ma alla fine del suo ragionamento ci sembra che ci sia un punto delicato da affrontare per essere sinceri e capirsi fino in fondo. Il punto è questo: come tutti gli investimenti, per “riattivare” la Rai potrebbe servire tempo e potrebbe essere necessario anche sperimentare. Sperimentare, come ci insegna la vita quotidiana della televisione, non sempre coincide con lo sfondare, almeno dal punto di vista degli ascolti. E dunque: il nuovo direttore generale della Rai ci sta per caso dicendo che in nome della sperimentazione gli ascolti possono avere un ruolo diverso rispetto a quello avuto fino a oggi? “Lo dico con sincerità e senza girarci attorno. Se questa fosse un’azienda privata tutte le nostre energie dovrebbero essere concentrate su come fare più soldi e a come trasformare ogni singolo minuto di programmazione in uno spazio potenzialmente utile per poterlo vendere a un inserzionista. La Rai non è una televisione commerciale ma è un servizio pubblico e in nome di questo principio prendere qualche rischio con gli ascolti non è un’opzione ma è parte della propria missione, quasi un dovere morale. Oggi questo concetto è in realtà ambiguo, e non del tutto definito, ma esiste un’occasione importante in cui il nuovo corso potrebbe essere certificato anche dal punto di vista formale. Nel 2016 dovrà essere rinnovata la convenzione tra la Rai e lo stato per le trasmissioni del servizio pubblico. In quell’occasione andranno anche ridefiniti gli obiettivi. E se la nuova convenzione dovesse avere al centro la necessità per la Rai di essere la fonte primaria dell’alfabetizzazione digitale e culturale del nostro paese il fine ultimo sarebbe questo e non più il solo dato degli ascolti del giorno precedente”.

 

Campo Dall’Orto, in realtà, arriva in Rai in un momento di transizione non solo della politica ma anche della stessa azienda. Nelle prossime settimane il Parlamento approverà la legge che riformerà la Rai e tra le norme importanti che saranno cambiate ve ne è una che riguarda proprio il ruolo del direttore generale. Il dg diventerà amministratore delegato, avrà potere autonomo sul riordino e la semplificazione dell’assetto normativo della Rai e sulla disciplina dei contratti e lascerà al consiglio d’amministrazione, al quale dovrà rivolgersi per i contratti solo per spese superiori ai 10 milioni di euro, soltanto i compiti “di controllo e di indirizzo generale della missione aziendale” – l’uomo solo al comando, direbbe qualcuno. Dunque, in questa fase di transizione, se Dall’Orto ha delle idee concrete su come cambiare la Rai quando potrà metterle in campo? “Per quanto riguarda la spending review continuerò a muovermi nel solco importante tracciato dal mio predecessore Gubitosi, sapendo che ogni soldo risparmiato sarà un soldo che verrà investito nella nostra azienda per sviluppare nuovi contenuti: investiremo, insomma, più soldi nel prodotto. E a questo proposito un concetto che credo sia chiave oggi è uno: dobbiamo imparare a trattare i contenuti di valore con una formula premium anche per consentire a tutti di accedere a una molteplicità di linguaggi, che non sia solo un ambito esclusivo della tv a pagamento. Dobbiamo capire, insomma, che l’essere efficienti non è un capriccio di un capo azienda ma è una necessità assoluta per chi vuole affermare l’idea che la Rai è qualcosa di diverso rispetto a quella che viene descritta eterodiretta dalla politica e schiava delle raccomandazioni. Efficienza significa emanciparsi dagli errori del passato e il mio mandato ha un senso anche per questo. Le richieste strane e sbagliate sono filtrate da un’idea precisa: un’azienda che premia l’inefficienza è un’azienda dove si possono fare strane richieste; un’azienda che funziona è un’azienda dove alcune cose non possono essere permesse. Per quanto riguarda le nomine invece – continua Campo Dall’Orto – non c’è fretta, non avverranno troppo in là ma ci saranno solo una volta messo a fuoco lo schema di gioco. Per il resto, per quanto riguarda l’organizzazione dei palinsesti, mi sento come quegli allenatori che arrivano a inizio stagione con una squadra già messa in piedi da qualcun altro. Da qui a fine anno il Prime Time è tutto programmato e da qui alla prossima primavera anche il Day Time è già incardinato. Diciamo che tra marzo e maggio ci sarà lo spazio per cominciare a disegnare una Rai più simile a quella che immagino. Detto questo laddove sarà possibile inizieremo a sperimentare fin da subito. Il primo esempio è il compleanno di Andrea Camilleri, figura importantissima per la cultura italiana e ancor di più per la Rai; abbiamo pensato di celebrarlo con un piccolo omaggio cambiando la punteggiatura di tutti i nostri canali nel giorno del suo compleanno, il 6 settembre”. Facciamo notare a Campo Dall’Orto che l’azionista principale della Rai, il presidente del Consiglio, che tramite il ministero dell’Economia e delle Finanze ha scelto Dall’Orto come direttore generale, quando parla di televisione e soprattutto di Prime Time, programmi di prima serata, ha come molti l’ossessione per i talk show. Non funzionano, dice Renzi. Sono gufi, sostiene il premier. Spesso non viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda dello spirito della #voltabuona. E vabbè. Chiediamo allora a Campo Dall’Orto se l’idea di imprimere al modello del talk show un cambiamento forte sia condivisa dal direttore generale e qui l’ex numero uno di Mtv e di La7 la mette giù così.

 

“La parola chiave anche qui, per me, è sperimentare e provare a capire come possono essere i talk show degli strumenti utili per caratterizzare l’identità di ogni singola rete. Nella mia idea di Rai il compito del talk show non deve essere quello che esiste, giustamente, nel mondo della tv commerciale – tu mi guardi e io scambio teste con la pubblicità – ma deve essere quello di lasciare un pensiero in più a coloro che lo hanno visto: un talk show che funziona non è sempre un talk show che supera come ascolti la concorrenza, ma è sempre un talk show che lascia qualcosa in più a chi lo sta guardando, che ne mette in dubbio il punto di vista.  Non credo sia utile dire quali sono i modelli di talk con i quali ho più confidenza. Credo sia più utile dire quali sono i modelli che secondo me funzionano e che mi capita spesso di vedere quando guardo la tv sia in Italia sia all’estero: poche persone che parlano, molti punti di vista differenti, molte conversazioni a due, anche solo con il conduttore. Con un unico fil rouge: quello di fare informazione per permettere a chi sta guardando non di indignarsi o di eccitarsi ma di imparare qualcosa di più. I talk, nel mio modo di vedere, devono riuscire a far confrontare idee diverse in modo comprensibile. Ed è ovvio che l’unico modo per valutare la bontà di un prodotto, almeno in un primo momento, è un criterio soggettivo più che oggettivo”.

 

La nostra conversazione con il direttore generale della Rai si conclude da dove avevamo cominciato: in che cosa somiglia la Rai all’Italia? Dice Campo Dall’Orto: “Io credo che ci siano davvero molte somiglianze. Da un lato in positivo: c’è una grande passione e un grande attaccamento all’azienda. Orgoglio, mi verrebbe da dire. Allo stesso tempo, però, stando qui dentro, e dopo aver girato il mondo, hai la stessa impressione di chi, dopo essere stato per molto tempo fuori dall’Italia, torna e vede le cose in modo chiaro e capisce i treni che sono stati persi e che quello che succedeva fuori da queste mura veniva spesso ignorato. Come se ci fossero due velocità di navigazione differenti: quello che succede fuori da queste mura, e quello che succede qui dentro. Se la mia missione ha un senso, e credo ce l’abbia, posso dire che il senso è questo: ridurre le due velocità e provare a far affiancare la nave della Rai a quella della nostra società. E il nostro compito oggi è più facile di cinquant’anni fa: non si tratta tanto di educare ma si tratta soprattutto di capire quello che succede. E vedrete poi che se lo schema funziona in qualsiasi momento possono spuntare i Gullit e i Van Basten”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.