Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

La bella estate (politica)

Cosa unisce il cda Rai, la Palestra di Pompei, Napolitano e l'Atac

Alessandro Giuli
Viale Mazzini farà pure ridere, ma se a piangere sono Rep. e il Fatto qualcosa di buono forse c’è: il metodo Renzi. Sai cheppalle la tivù dei prof.

Pensavo fosse amore, invece era il cda Rai.

L’abbiamo scritto in tanti, perfino in troppi e forse il problema è proprio questo: nulla di personale, ma il consiglio di amministrazione di Viale Mazzini è un tantino deludente, a quanto pare inadeguato alla bisogna, una cosa a metà tra il premio Spotorno subito (quello che non-piace-alla-gente-che-non-piace, e che infatti Maurizio Crippa non vincerà mai) e il ripostiglio di Villa Arzilla, un bivacco di manipoli più o meno anonimi e pensionati, presieduti dalla fulva Monica Maggioni e diretti dal caschetto postmoderno di Antonio Campo Dall’Orto. Con l’eccezione, dicono tutti, detrattori compresi, di Carlo Freccero, perché lui sì che se ne intende di tivù, conosce i contenuti e il prodotto e la macchina e così via, il che sarà stato anche vero, ma in altre ere geologiche, in altri luoghi del terzomondismo benecomunista, magari sul pianeta Kepler-452b dove potrebbero abitare soltanto il dott. Gribbels e i suoi seguaci sponsores del Freccero medesimo. Insomma poco da eccepire alla mosceria corale dello spettatore Rai, ma in questo poco c’è molto e questo molto riguarda il metodo dell’intemerata micronazarenica appena conclusa.

 

Deve esserci un motivo, ci siamo detti qui, in zona Royal Baby, se la stordita sinistra del Partito democratico, quella che ha usato come pretestuoso scudo umano la candidatura di un gentiluomo come Ferruccio de Bortoli, sta ancora mugolando sulle proprie ferite; se la Baby Gang del Fatto quotidiano travaglieggia inferocita sulla resurrezione del Nazareno miracolosamente avvenuta per opera di Gianni Letta e Maria Elena Boschi; e se perfino un renziano amletico come Ezio Mauro, direttore di Repubblica, è sceso a valle per dettare un editoriale meteoropatico e atrabiliare sulla vicenda: “Se è vero che la Rai è termometro del tempo politico che farà, allora si prepara un clima grigio e spento per la parte che resta della legislatura”. Ecco, se le cose stanno così bisogna ammettere che non sono poi malaccio. Renzi poteva stupire con effetti speciali, mirare più in alto con nomi di rango, ma alla fine ha prevalso in lui l’essenza non politica del politico contemporaneo: se n’è fottuto in allegria del galateo istituzionale, del protocollo esornativo e rococò che si è sedimentato alla base di ogni selezione dirigenziale nella tivù che è di Stato ma pure commerciale, ha dato l’impressione di giudicare il dossier Rai come una seccatura minore e necessaria da disbrigare in fretta per poi rivolgersi alle impellenze riformatrici del suo governo (dove allignano i suoi veri problemi), e in nome di questa sua giovanile interpretazione della ragion pratica ha recuperato una parvenza di dialogo con il Caimano emerito, con Silvio Berlusconi, teste il Letta che non tramonta mai e si fa accogliere al Nazareno dall’ingresso di servizio, quello dei veri potenti. Dopodiché ogni contraente del patto di Viale Mazzini ha utilizzato il materiale umano che aveva a disposizione, non era una cremosa prima scelta ma sai cheppalle un altro cda dei professori.

 

L’immagine offerta dall’operazione non è così diversa da quella dell’inner circle di Palazzo Chigi: una banda di giovani barbari digitali alle prese con il potere, in un’Italia squinternata dai loro inconsolabili e analogici predecessori, e che nel poco tempo libero dà una rassettata alla Rai infischiandosene di vecchi interdetti e scomuniche giudiziarie. Divinamente godibile, se pure non sia il prologo di un esplicito ritorno in affari pubblici da parte dei due maggiori azionisti della politica nazionale, un rintocco della Grande coalizione vagheggiata negli ultimi giorni dall’intendenza berlusconiana di fronte ai balbettii della maggioranza gigliata.

 

A proposito di emeriti, riecco Napolitano.

Mai sottovalutare le parole del presidente che regnò due volte. Deve esserci una ragione solida se Giorgio Napolitano decide di affidare al Corriere della Sera una lettera in cui ricorda urbi et orbi che sulla riforma del Senato “un punto fermo è stato ormai posto” e “non è pensabile si torni indietro”. Di qui il richiamo al “rischio di ‘disfare la tela’, come ebbi modo di dire… nel ricordo di esperienze di drammatica inconcludenza in questa materia, da me vissute a più riprese e in particolare da presidente della Repubblica”. Conclusione: un appello affinché non vada perduto “quell’impegno di riforma costituzionale che era apparso – e auspico possa ancora tornare a essere – largamente riconosciuto e condiviso”. Per un politico di antico conio come Napolitano, cresciuto nell’alveo dell’euromarxismo, sussistono ancora differenze sostanziali tra struttura (governare un paese e le sue dinamiche economico-politiche) e sovrastruttura (Rai e affini). Lui, l’artefice principale della dittatura commissaria (governo Monti) e delle iper maggioranze successive (Letta-Cav. e Nazareno), ha compreso bene che Palazzo Chigi ha un grosso problema di numeri e di strategia da risolvere in Senato, con l’ultimo giro di voto sulle riforme costituzionali, e che lì può decidersi un passo importante nella rotta del renzismo. Se la minoranza del Partito democratico opterà davvero per la guerriglia vietnamita, pur di scardinare i requisiti essenziali del nuovo palinsesto istituzionale, il presidente del Consiglio si troverà di fronte a scelte difficili: scendere a patti con i rivoltosi, concedendo quel che si può e acconciandosi umiliato a ricominciare da capo il traffico tra le due Camere, raccattare voti in disordine sparso, rivolgendosi ai verdiniani nella speranza che questo basti a non ruzzolar giù, interpellare ancora una volta Berlusconi offrendogli un patto di fine legislatura che somigli a un appoggio esterno, se non qualcosa di più. Napolitano, che conosce gli attori sulla scena e sa di cosa parla, quando parla, ha già indicato la via. Astenersi illusionisti e perditempo.

 

[**Video_box_2**]Roma che viene, Roma che va.

Meno “sovrastrutturale” di quanto si creda è la notizia che l’inaugurazione della Palestra grande di Pompei, celebrata dal ministro Franceschini lunedì scorso, era una sòla: l’hanno chiusa il giorno dopo senza dire niente ai turisti smarriti. Motivo: personale insufficiente. Il titolare della Cultura, sovrastato dalle proteste, pare stia rimediando. Ma la figuraccia è rotonda e fa il paio con lo sciopero degli autisti Atac previsto oggi nella Capitale, dove il prefetto Gabrielli non ha osato ricorrere alla precettazione. Motivo: i romani sono in vacanza. E i turisti in vacanza a Roma? Si cumulano buone ragioni per la santa teppa renziana che punta a rimuovere Marino dal Campidoglio.