Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Perché Mattarella non potrà dire di no a Renzi in caso di voto anticipato

Stefano Ceccanti
Non credo che fino all’autunno 2016, data del referendum sulla riforma costituzionale, vi sarà nessuna crisi di governo. Questo non è un dato miracolistico o provvidenzialistico, ma ha a che fare con una consapevolezza diffusa, anche se molti a parole lo negano: non c’è politicamente spazio per altri governi nella legislatura.

Non credo che fino all’autunno 2016, data del referendum sulla riforma costituzionale, vi sarà nessuna crisi di governo. Questo non è un dato miracolistico o provvidenzialistico, ma ha a che fare con una consapevolezza diffusa, anche se molti a parole lo negano: non c’è politicamente spazio per altri governi nella legislatura. L’abbattimento dell’esecutivo porterebbe con sé fatalmente l’implosione dell’intero sistema, recando vantaggi solo agli imprenditori della paura e dell’irresponsabilità, che restano minoritari in Parlamento. L’assenza di alternative tende a retroagire sulle spinte alla crisi di governo neutralizzandole, per quanto ovviamente la politica possa essere spiegata in modo razionale e ammesso che non prevalgano pulsioni suicide di alcuni. Il punto di difficoltà è noto: l’elettività diretta del Senato che non è un accidente, ma il presupposto necessario della differenziazione del bicameralismo, come sanno benissimo anche coloro che vi si oppongono e che lo usano come leva contro il governo. Peraltro una leva di ben dubbia ammissibilità sulla base del Regolamento del Senato, avendo già entrambe le Camere approvato un Senato non elettivo nei passaggi precedenti

 

Le ragioni fondamentali che tenderebbero a escludere crisi di governo sono fondamentalmente tre. La prima ha a che fare con la dinamica della legislatura. Abbiamo già avuto all’inizio di essa un governo di tregua, un surrogato della Grande coalizione, che però non ha retto alla prova dell’efficacia della sua azione, anche perché le forze politiche che lo sostenevano non vi si identificavano pienamente come accade invece nelle Grandi coalizioni. Per reazione il partito di maggioranza relativa si è poi esposto direttamente a guidare il governo attraverso il suo nuovo segretario chiamandolo a guidare l’esecutivo con una maggioranza più piccola e più omogenea, l’unica compatibile con un’ipotesi di rapporto positivo con gli altri Governi europei. A questo punto l’eventuale caduta non sarebbe arginabile con formule diverse e raccogliticce, esattamente come si sta profilando in Grecia con i dilemmi di Tsipras tra rinsaldamento della maggioranza ed elezioni. Ovviamente sul piano costituzionale il discorso è potenzialmente diverso e, come tutti i Presidenti che si sono avvicendati sotto il secondo sistema dei partiti, anche il Presidente Mattarella a quel punto cercherebbe rigorosamente di verificare l’esistenza di un’altra maggioranza, ma come potrebbe il partito di maggioranza relativa dare il suo consenso (che sarebbe comunque necessario) a una penalizzazione così forte del proprio operato? Come potrebbe smentire se stesso e il proprio segretario? Per questa ragione è evidente che il ruolo di moral suasion presidenziale si sta già esercitando in queste settimane e ancor più lo sarà nelle prossime a scopo preventivo perché potrebbe invece essere ben poco efficace in seguito.

 

La seconda ragione è relativa al tipo di questione su cui il governo è messo alla prova. I governi Dini e Monti sono potuti nascere in alternativa alle elezioni a partire da una specifica issue, quella della inevitabile riforma pensionistica, per operare una scelta impopolare difficile per i partiti sotto una copertura tecnica. Il governo D’Alema su una questione anch’essa indifferibile, l’intervento militare in Serbia, che non poteva essere affrontata da una coalizione in cui l’Ulivo doveva convivere, attraverso la cosiddetta desistenza e l’appoggio esterno, con Rifondazione Comunista. In tutti questi casi il Quirinale ha potuto agire in raccordo con governi esteri su cui le nostre decisioni incidevano in modo rilevante e sulla spinta dell’emergenza. Viceversa la materia istituzionale è la più politica di tutte, impatta direttamente sulle strategie dei partiti, ha effetti solo intra-nazionali (anche se è ben compresa all’estero nella sua strategicità), non può essere gestita senza un accordo chiaro che parta dalla maggioranza di governo, sperabilmente aperta ad altri. Come il Presidente Mattarella ben sa per averlo gestito allora da Ministro per i rapporti col Parlamento (e come ben sapevano allora i parlamentari) il governo De Mita sarebbe caduto se i parlamentari non avessero votato in conformità all’accordo De Mita-Craxi sulla limitazione del voto segreto nei Regolamenti parlamentari. Per inciso: una delle riforme più benefiche della storia della Repubblica. Al contrario di quanto sostiene la vulgata assemblearistica (le riforme delle regole sarebbero materia solo parlamentare, come se i governi non avessero in quell’ambito iniziativa legislativa e non l’avessero usata in modo stringente da più di trent’anni) e come ha dimostrato in negativo anche la scorsa legislatura in cui il governo Monti aveva lasciato questo ambito ai partiti con l’esito nullo che ben ricordiamo, nel nostro contesto i governi non possono eludere tra le proprie priorità la materia istituzionale e una volta abbattuto un esecutivo su questo non c’è modo di rincollare i cocci. Non a caso Napolitano non riuscì a dar vita al governo Marini dopo la crisi del Prodi II perché la riforma elettorale costituì una pietra di inciampo ineludibile.

 

La terza ragione attiene a come si è configurato il sistema dei partiti dopo le elezioni del 2013, quando la sensazione di inconcludenza della forze politiche tradizionali ha aperto il varco a una crescita enorme di una forza che si autoesclude da collaborazione nel sistema e che si nutre non dei propri meriti ma solo dell’incapacità altrui. Rispetto a questo tipo di sfida non c’è niente di peggio di Governi e di maggioranze che diano l’impressione di navigare a vista, con obiettivi minimali, con continui negoziati interni alle maggioranze. La teoria dell’usato sicuro si è rivelata in assoluto la peggiore, rispetto alla quale anche l’eventuale ricorso anticipato alle urne per colpa di settori irresponsabili sarebbe comunque un male minore, anche a costo di votare col cosiddetto Consultellum in entrambe le Camere o in una sola di esse anticipando l’entrata in vigore dell’Italicum alla Camera.

 

Tenendo conto di queste ragioni, tuttavia, e ferma restando l’impossibilità di allargare di nuovo la maggioranza di governo, vi sono due possibili scenari. Il primo, quello relativamente meno auspicabile tra i due, prevede il passaggio della riforma solo allo scopo di non far cadere la legislatura, per convergenza d singoli o di piccoli gruppi. Sempre meglio di scenari traumatici, ma di minore valenza sistemica. Il secondo, prevede, invece, che Forza Italia rientri nella maggioranza per le riforme. Un obiettivo che è reso più semplice dal disallineamento temporale tra il referendum (ormai di fatto già slittato all’autunno 2016) e le elezioni amministrative (primavera 2016), che permette di distinguere meglio accordo sulle riforme e alternatività sulle competizioni elettorali. Tuttavia Forza Italia dovrebbe modificare le proprie richieste di merito: quelle attuali appaiono paradossalmente contrarie anche ai suoi interessi di parte. L’elettività del Senato porterebbe con sé un aumento dei poteri di veto di un Senato espressivo delle autonomie in cui per molti anni sarà strutturalmente in minoranza e che quindi potrebbe danneggiarla qualora riuscisse a vincere alla Camera. L’inserimento del premio di coalizione allo stato attuale delle cose la consacrerebbe come partner minore della Lega e spingerebbe i centristi, di fronte a tale prospettiva, ad allearsi col Pd almeno al secondo turno, isolando ancor di più Forza Italia.

 

[**Video_box_2**]L’effetto invece di un referendum che vedesse coesi nell’aggiornamento costituzionale i due poli tradizionali, pur destinati ad essere poi alternativi, comincerebbe invece a prosciugare il terreno da alcune delle ragioni che hanno alimentato la protesta. Sempre che la politica si riveli, alla fine, razionale o che non prevalga in molti l’idea di un voto con un sistema che, dopo, lascerebbe aperti molti scenari. In genere, però, nessuno di essi beneficia chi fa cadere la legislatura.