Giorgio Napolitano con Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Base, mutande, salamelle

Claudio Cerasa
In che senso la legislatura ha senso se il Pd segue più il metodo Napolitano che il metodo Mattarella: chissenefrega degli equilibri
tra correnti (e cucine) del Pd, contano i progetti d’inizio legislatura.

La goduriosa lettera con cui Giorgio Napolitano ha spiegato martedì all’amico Eugenio Scalfari la ragione per cui in alcuni passaggi cruciali della storia della Repubblica le riforme che contano non importa con chi vengono fatte ma importa solo che vengano fatte ci offre l’occasione per mettere ordine e fare un ragionamento che a questo punto della legislatura dovrebbe essere scontato ma forse ancora non lo è. Lo diciamo nel modo il più possibile lineare, con rispetto, e senza voler essere offensivi con nessuno, ma lo snodo politico che non si può ignorare è che oggi il metodo Napolitano rappresenta l’unico percorso possibile per evitare che il metodo Mattarella porti inevitabilmente all’implosione di questa legislatura. Intendiamoci con le definizioni. Dicesi “metodo Napolitano” una forte spinta verso un abbraccio tra nemici, a volte scomodo e fastidioso ma spesso inevitabile, nel nome non di un’ideologia ma di un preciso progetto condiviso. Dicesi “metodo Mattarella”, invece, non un metodo che riguarda l’attività e il non attivismo del presidente della Repubblica ma che riguarda il contesto che ha permesso sette mesi fa a Sergio Mattarella di arrivare al Quirinale: la necessità di privilegiare, prima ancora che l’unità del paese, l’unità del centrosinistra.

 

Arrivati a questo punto della legislatura, dunque, le strade che Renzi ha di fronte a sé sono due ed è inutile girarci attorno. La prima: assecondare lo spirito del metodo Mattarella e considerare prioritaria, per la gioia di Rosy Bindi, prima ancora che la tenuta del paese la tenuta del centrosinistra. La seconda: assecondare in modo intelligente il metodo Napolitano e considerare prioritari non tanto gli equilibri tra le correnti del Pd ma i progetti che si trovano alle origini di questa legislatura e che politicamente coincidono più con le ragioni che hanno portato alla seconda elezione di Giorgio Napolitano, e con l’ovazione che il Parlamento gli rivolse il 25 aprile del 2013, che con la stessa elezione di Sergio Mattarella – un presidente della Repubblica che, letture noiose a parte, interpreta in modo magistrale il ruolo notarile e non invasivo di un capo dello stato di una Repubblica, la Terza, che si formerà soltanto nel momento in cui verrà approvato il pacchetto delle riforme costituzionali portato avanti dal governo Renzi e plasmato all’inizio di questa legislatura proprio da Re Giorgio.

 

Il metodo Napolitano, però, non corrisponde soltanto a una grande spinta verso l’incontro tra avversari politici in nome di un progetto condiviso ma è anche un metodo che coincide con quello stesso approccio politico che in questi anni ha messo in mutande il politicamente corretto di una parte importante della sinistra e che ha costretto i più importanti dirigenti del centrosinistra a fare i conti con due problemi mica da poco. Primo problema (si salvi chi può): accettare il fatto che la tradizionale cultura di sinistra (che per una vita ha confuso il termine moralismo con il termine riformismo) sia incompatibile con la cultura di governo e che dunque governare significhi anche fare i conti non con ciò che si vorrebbe fare ma semplicemente con ciò che si può fare. Secondo punto: accettare il fatto che, per potersi muovere all’interno del perimetro di governo, se si hanno degli obiettivi che si vogliono e si devono raggiungere, quegli obiettivi vanno raggiunti e perseguiti fottendosene allegramente di quello che i compagni dicono mentre preparano salamele alle feste dell’Unità. Il metodo Napolitano, per dirlo in modo ancora più brutale, presuppone dunque un principio fondamentale che non può che essere considerato eretico da chi cova ancora dentro di sé molto rancore per non essere stato autorizzato, ai tempi, a fare un governo con i discepoli trinaricuti di Grillo e Casaleggio.

 

[**Video_box_2**]Quel principio lo potremmo tradurre così: quando si governa (chiedere per credere al dottor Gerhard Schröder) bisogna ascoltare più la propria testa che la propria base. Certo. E’ probabile che abbiano ragione i Cuperlo, gli Speranza e i Bersani quando raccontano ai cronisti che la loro linea è quella giusta perché in fondo è quella che “chiede la gente” ed è quella che vuole il “nostro popolo”. E in fondo, quello dei Cuperlo e dei Bersani, è un discorso coerente, perché fu proprio il criterio di “seguire la base” e “ascoltare il nostro popolo” che portò all’inizio della legislatura la vecchia sinistra a piazzare alle presidenze delle Camere, sperando di poter ingolosire i cugini di Casaleggio, le tessere numero uno e numero due del partito dell’ovvio dei popoli, corrente maggioritaria della coalizione dei banalotti della società civile: Pietro Grasso e Laura Boldrini. Quel metodo, che ha prodotto i risultati che sappiamo, era però diametralmente opposto al metodo Napolitano e presupponeva cioè un interesse legato più all’unità del centrosinistra che ai temi prioritari sia per il governo sia per il paese. Anche da questo punto di vista, dunque, se c’è una lezione utile che oggi l’ex presidente della Repubblica offre all’amico Scalfari e agli amici della minoranza del Pd (lezione che siamo certi che pur nel suo silenzio assenso condividerà anche l’attuale capo dello stato) la lezione è questa: rassegnatevi, cari compagni, una sinistra di governo, per essere tale, deve cambiare pelle, e per farlo spesso è necessario non solo avvicinarsi quanto serve ai nemici di una vita, per raggiungere dei risultati importanti, ma anche, quando serve, allontanarsi momentaneamente dalla propria base, e all’occorrenza persino educarla. Sapendo (a) che non tutto quello che potrebbe funzionare un domani è scontato che sia capito oggi. E sapendo, soprattutto, che (b) non c’è leader peggiore di chi, invece che guidare i propri follower, sceglie stupidamente di farsi guidare da chi lo segue e da ciò che si pensa che possa piacere tra le cucine delle feste dell’Unità.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.