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Sondaggi ravvicinati del terzo tipo

Alessandro Giuli
Diceva Schopenhauer che ogni uomo confonde i limiti del proprio campo visivo con i confini del mondo. Nel caso dei sondaggi, per lo meno in Italia, siamo giunti ben oltre l’allucinazione eletta a paradigma di una verità immaginaria e autolesionistica.

Diceva Schopenhauer che ogni uomo confonde i limiti del proprio campo visivo con i confini del mondo. Nel caso dei sondaggi, per lo meno in Italia, siamo giunti ben oltre l’allucinazione eletta a paradigma di una verità immaginaria e autolesionistica. I populisti ci vanno a nozze, coi sondaggi, sono il loro carburante ideologico e il loro spaventapasseri issato come un’insegna di guerra nel campo arido delle idee.

 

L’ultima uscita del Fatto è un trionfo di sondaggismo al servizio del martello (sotto vuoto) pneumatico del dott. Gribbels: “Il M5s vola nei sondaggi. Fico: Opportunisti via”. Nelle pagine interne il concetto viene dispiegato con un’intervista all’ufficiale dei meet up grillino e con una ricognizione tra i professionisti dei numeri sulle alte aspettative elettorali della nota setta anti politica. Nulla di troppo eccentrico, considerate le linee di forza che da almeno un lustro si attorcigliano come un cappio intorno alla Repubblica dei sondaggi (è anche il titolo di un libro non recentissimo ma con pretese scientifiche, scritto da Bruno Poggi e Luciano Ghelfi per FrancoAngeli).

 

Quella che in origine è sembrata una prassi insolita e dirompente, della quale Silvio Berlusconi ha fatto largo e rivoluzionario uso, e cioè mettersi nella dimensione dell’ascolto professionale delle viscere in cui ribolle il consenso e macera lo scontento elettorale, si è nel tempo modificata fino al punto di acquisire tratti di tirannia anti veritativa (come dimostra la proliferazione di istituti e stregoni al servizio di exit poll sempre più squinternati). Ma il malanno ha investito sopra tutto la meccanica della domanda e dell’offerta politica, ricalcando schemi di marketing plebeo e soppiantando la dignità della proposta politica centrata su una visione strategica e non sulla paura di mancare il soffio di vento estemporaneo.

 

La filosofia del “ce lo chiede la ggente” di cui si è occupato più volte questo giornale rappresenta la consacrazione teorica di una impasse della ragion politica. I leader di partito, dal premier in giù, si sopravvivono nell’ossessione di auscultare il senso comune, e così facendo abdicano alla funzione di orientarlo.

 

[**Video_box_2**]Renzi sta provando con difficoltà a rompere la gabbia, presentando poche ma ambiziose riforme (lavoro e scuola su tutte) sulle quali giocarsi una parte di consenso immediato pur di scardinare rendite polverose e improduttive (e magari vendemmiare più in là), ma anche lui oscilla, patisce la rincorsa grillina alimentata da una ricerca esasperata del dissenso comune che si fa sostegno cieco e inabile alla prova del governare. E’ una linea democraticamente ineccepibile, la demagogia, ma la realtà è un’altra cosa e si sostanzia di proposte lontane dalla metafisica del massimalismo sondaggista, impermeabili al continuo richiamo alle virtù della democrazia internettiana (modernissimo travisamento della già funesta democrazia diretta). Stiamo evocando una moratoria sui sondaggi? Non proprio. La disoccupazione, fosse pure quella dei sedicenti aruspici al servizio dei partiti imbelli, è come la galera: non si augura a nessuno. Ma un bel vaffa rotondo e politico ci starebbe bene.