Farage e Grillo (foto LaPresse)

Conversazione con il prof. Marco Tarchi

L'equivoco populista tra marketing politico e paraculismo delle élite

Nicoletta Tiliacos
L’appello al popolo come rifugio di eticità che unisce Syriza, Podemos, Farage e Le Pen. La specificità italiana. Conversazione con il prof. Marco Tarchi. Usare questa etichetta per situazioni così distanti ha un senso “se si identifica il populismo come una mentalità, come un atteggiamento intellettuale"

Roma. In occasione delle ultime tornate elettorali in Europa, dalla Spagna alla Francia, si è parlato di nuovo argine alle formazioni “populiste”, mettendo insieme la sinistra di Podemos, il Front national di Marine Le Pen e aggiungendoci le difficoltà in cui si dibatte Syriza al governo della Grecia e l’Ukip declinante di Farage in Inghilterra. Prima di interrogarsi sulla sotstanza (se cioè l’argine sia stato messo o meno) ci si chiede se ha senso accomunare sotto l’infamante etichetta di “populismo” (quasi mai il termine è usato in senso meno che spregiativo) fenomeni in apparenza così diversi. Ne parliamo con Marco Tarchi, docente di Scienze politiche a Firenze, che ha appena ripubblicato la versione ampliata e aggiornata di un suo importante saggio del 2003, “Italia populista” (il Mulino, 379 pp., 20 euro), con un sottotitolo nuovo di zecca: “Dal qualunquismo a Beppe Grillo”.

 

Tarchi spiega che usare quell’etichetta per situazioni così distanti ha un senso “se, come io propongo, si identifica il populismo come una mentalità, come un atteggiamento intellettuale, una predisposizione psichica priva di forma, fluttuante, in cui si fa riferimento a valori generici, e non come un’ideologia. La risposta è sì, dunque, con qualche precisazione. Dal discorso politico di quasi tutti i soggetti citati traspare la convinzione che il popolo sia una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, l’attribuzione a questo popolo di naturali qualità etiche e la rivendicazione del suo primato al di là di ogni forma di rappresentanza e di mediazione. Questa è l’essenza del populismo, che porta a esaltare i ‘piccoli’ contro i ‘grossi’, ‘chi sta in basso’ contro ‘chi sta in alto’. Se ne trovano tracce nel Fn come nel Front de Gauche, in Podemos come nell’Ukip, in Syriza come nella Lega nord e in altri movimenti analoghi sparsi per l’Europa. L’intensità di questi tratti caratterizzanti è però diversa da caso a caso e può assumere declinazioni diverse. Come alcuni studiosi hanno fatto notare, laddove le altre tematiche tipicamente populiste non si sposano con la rivendicazione di un’identità specifica del proprio popolo, la presa di questi movimenti è minore o più legata alle contingenze.

 

Il politologo Dominique Reynié ha sottolineato a ragione che la formula di successo oggi è quella del ‘populismo patrimoniale’, che promette contemporaneamente di difendere sia il livello di vita che lo stile di vita della gente comune”. All’anatema eterno contro il populismo si accompagna il fatto, come lo stesso Tarchi mette in luce nel suo saggio, che “l’appello al popolo” stia diventando, non solo in Italia, una modalità sempre più diffusa di azione politica. Non è una contraddizione? “La contraddizione c’è, ma si spiega. A usare il termine in forma spregiativa è quella classe dirigente – politica, ma anche economica e intellettuale – che dei populisti è il bersaglio preferito, per tutti i vizi che le vengono addebitati: corruzione, inefficienza, autoreferenzialità, ingordigia e via dicendo. Liquidare queste accuse come frutto di un ingenuo, se non stupido, atteggiamento antipolitico è un’ovvia strategia di difesa. Poiché però uno degli strumenti privilegiati con cui i politici di professione hanno da sempre giustificato il proprio potere, cioè la rivendicazione delle proprie competenze tecniche, il possesso di capacità superiori a quelle dell’uomo della strada, non fa più presa sulla massa dei cittadini a causa delle pessime prove offerte negli ultimi decenni da governi tecnici, burocrazie e apparati istituzionali in molti paesi europei, si deve prendere un’altra strada per ottenere il risultato cercato. Ed ecco spuntare l’auto-apologia degli ‘uomini del fare’, le promesse di restituire lo scettro al popolo, l’uso spregiudicato del marketing per apparire concordi con le aspettative degli elettori certificate dai sondaggi. A volte questa sorta di aggiramento delle critiche funziona. Altre volte provoca un corto circuito e un’ulteriore delegittimazione del ceto politico e di chi lo spalleggia, nei media o nei circoli intellettuali”.

 

Sta dicendo che esiste un populismo (o l’uso di “armi” squisitamente populiste) anche da parte delle élite poliche? Si è parlato di un populismo berlusconiano e ora anche di un populismo renziano. Si tratta di coloriture superficiali, che con il “vero” populismo non hanno molto a che fare? “In entrambi i casi – risponde Tarchi – elementi di populismo ci sono, con una differenza. In Renzi l’uso sempre più frequente di codici argomentativi populisti – gli strali lanciati ai ‘professoroni’ che gli rivedono i conti, l’epiteto di ‘mangiatartine’ scagliato contro gli intellettuali che lo criticano, l’accusa di pigrizia ai politologi che osano mettere in dubbio la bontà della legge elettorale che si è fatto confezionare, le tirate contro ‘l’Europa dei banchieri’ che ‘non può essere il nostro destino’ – è essenzialmente un dato stilistico, che rientra perfettamente nel suo culto del marketing. Renzi usa queste espressioni perché sa che ‘tirano’. Si serve dello stile populista contro i populisti. In Berlusconi c’era, e forse c’è, qualcosa di più. A differenza di Renzi, non è un politico allevato in sezione, e non dimentica di essere, a suo modo, ‘uno come gli altri’: più bravo o più fortunato, ma pur sempre legato a qualità (e vizi) ordinari, portato a dialogare con la gente qualunque faccia a faccia, ostentatamente estraneo ai riti istituzionali, alle defatiganti mediazioni, al famoso ‘teatrino della politica’ (espressione inventata non da lui ma da Guglielmo Giannini). Insomma, un briciolo di autentica mentalità populista in Berlusconi c’è. Non c’è, però, nei partiti da lui fondati, e questo stacco ha pesato nel funzionamento della sua macchina politica, al di fuori dei momenti elettorali”.

 

L’etichetta di “populista” in Italia è ormai apertamente associata, oltre alla Lega, al Movimento cinque stelle. Nel suo libro, Tarchi spiega quali sono gli elementi peculiari del populismo grillino: “La tesi del ‘web-populismo’, che pure si sta diffondendo, mi convince poco. Certo, l’uso interattivo di internet e dei social network favorisce l’orizzontalità dei rapporti fra gli individui e crea – o dà l’illusione di creare – comunità virtuali, ma queste sono cosa ben diversa da un popolo, cioè da un’entità organicamente legata da un patrimonio culturale, da tradizioni consolidate nel tempo, da uno stile di vita condivisa. E per quanto riguarda il M5s, mentre nel discorso di Grillo riconosco tutti i tratti della mentalità populista, in molti dei suoi seguaci, soprattutto negli eletti in Parlamento o nelle assemblee locali, non ne vedo che flebili tracce. Perlopiù, questa sorta di quadri intermedi del movimento gli si sono avvicinati perché attratti da alcune tematiche specifiche – l’ecologia, la difesa dei ‘beni comuni’, la lotta alla corruzione – che col populismo hanno solo parziali sovrapposizioni. Buona parte delle difficoltà interne dell’universo grillino derivano da questa distanza, che su alcune questioni, come la posizione nei confronti dell’immigrazione, è molto accentuata”.
Sta di fatto che l’accusa di populismo fiorisce soprattutto quando il distacco tra élite e popolo diventa più aspro, “e di questo distacco non è responsabile l’antipolitica, ma la politica. La richiesta dei populisti di introdurre un meccanismo che consenta di revocare gli eletti che non mantengono le promesse e diventano sgraditi ai loro elettori, o quella – sostenuta da Grillo – di reintrodurre il vincolo di mandato per parlamentari e consiglieri degli organi di governo locale, affonda le radici nella constatazione del fossato sempre più ampio fra i cittadini ordinari e le classi dirigenti.

 

Chiediamo infine a Tarchi qual è la peculiarità del populismo italiano: “L’Italia è stata definita da taluni studiosi il laboratorio ideale, e perfino il paradiso, del populismo. Certamente, da noi il fenomeno ha radici antiche e ha lasciato tracce in molte esperienze politiche. C’è chi sostiene che ciò derivi da una sua sintonia con i tratti essenziali del carattere nazionale italiano. Può essere vero, ma di sicuro l’insipienza e i difetti della nostra classe politica sono stati decisivi nel favorire questa rigogliosa fioritura”.