Ollanta Humala, presidente del Perù

I miracolati del petrodollaro. Inchiesta sui soldi di Podemos

Angela Nocioni
Le fondazioni-paravento, i viaggi, le consulenze. Le amicizie tra i regimi latinoamericani e il partito spagnolo

Roma. Non solo Caracas. Anche Lima. Anche La Paz. I legami dei leader di Podemos con la sinistra latinoamericana foraggiata dai petrodollari chavisti sono stati stretti a Caracas, ma poi messi alla prova altrove, valutati in missione. E il governo venezuelano ha tenuto la futura Podemos a lungo sotto esame dal 2000 in poi, durante gli anni della costruzione di una diplomazia continentale alternativa a quella tradizionale che garantisse alleati fedeli alla Rivoluzione di Hugo Chávez, arrivato al potere nel ’98. Al Foglio risulta, per esempio, che due spagnoli, intimi del gruppo attuale di Podemos, il partito-rivelazione della scena politica spagnola, fossero stati spediti da Chávez nella primavera del 2006 a fare da angeli custodi a Ollanta Humala, attuale presidente del Perù, mentre era in corsa per l’elezione. Si tratta di Roberto Viciano e di Rubén Martínez, due professori di Valencia. Humala allora era l’outsider che faceva paura alla politica peruviana. Di outsider che partono in sordina e vincono le elezioni in volata è piena la storia del Perù. Chávez aveva visto bene. Humala all’inizio del 2006 era la grande incognita a Lima. Da destra lo accusavano di essere un pericoloso sovversivo. Da sinistra, lo temevano come convinto militarista. Lui diceva di avere solo due miti: il generale Charles de Gaulle e Napoleone. Al leader venezuelano piaceva, lo chiamava “la promessa del nazionalismo andino”.

 

Figlio di militari, ex colonnello dell’esercito peruviano, implicato nel 2000 nel tentativo di insurrezione di giovani ufficiali contro l’allora presidente Alberto Fujimori, Humala era stato liberato subito dopo la fuga di Fujimori in Giappone, reintegrato nell’esercito e spedito come addetto militare prima in Francia e poi in Corea del sud. Tornato in Perù, aveva fondato dal nulla il Partito nazionalista peruviano, per candidarsi alle elezioni presidenziali dell’aprile 2006. Cercava di tranquillizzare l’elettorato. Si sgolava a ripetere: “Il mio nazionalismo non è fascismo. Voglio solo recuperare la nostra sovranità nazionale e restituire dignità al mio paese, ridotto a una neocolonia”. Non ci riuscì subito. Ma continuò a essere sostenuto e appoggiato dal Venezuela, fino alla vittoria. Poi Humala, ormai presidente, si distanziò dai generosi amici di Caracas, anche pubblicamente. A Miraflores, il palazzo presidenziale venezuelano, lo chiamano “l’ingrato”.

 

Allora comunque, quando ancora sorrideva accondiscendente agli emissari chavisti spediti a caccia di alleati possibili per l’America latina, era molto seguito da Caracas, che lo stava studiando bene. I due spagnoli ora nell’orbita di Podemos, Viciano e Martínez, erano parte integrante della delegazione diplomatica venezuelana in tournée continentale. Venivano presentati come “i due che curano Ollanta Humala per conto di Chávez”. Si presentavano come due consiglieri del presidente venezuelano per la politica europea. In realtà erano due professori malmessi dell’Università di Valencia che a Caracas avevano trovato l’America. Due docenti di estrema sinistra innamorati delle cause radicali, il genere tipico (e solitamente un po’ triste) del so-tutto-io europeo che s’appassiona con ideologico fervore alla rivoluzione in casa d’altri. Dall’Avana del 1959 in poi, di tipi antropologici simili, se ne perde il conto. Qualche illuso, numerosi sfaccendati, parecchi scrocconi. Negli anni Novanta ne era pieno anche il Chiapas del subcomandante Marcos, che a differenza della Caracas chavista, però, non era gonfio di petrodollari.

 

Nel caso dei due valenziani si trattava proprio di due funzionari informali del chavismo. Andavano in missione ovunque. Marcavano tanto stretto Ollanta Humala da occuparsene anche quando lui andava dal presidente boliviano Evo Morales a La Paz.

 

Roberto Viciano compare a sorpresa come presidente di una fondazione culturale dalla storia curiosa, il Centro di studi politici e sociali, il Ceps. Il luogo di costituzione è sempre Valencia, la mettono su Viciano, Martínez e altri amici loro del giro chavista spagnolo. Secondo quanto risulta al giornale venezuelano El Nacional, sarà il Ceps a fare da tramite tra il Venezuela e la Spagna per far piovere su Podemos milioni di petrodollari chavisti. Podemos nega che ci siano vincoli tra il Ceps e il movimento politico di Iglesias e compagni. Il Nacional sostiene invece che da quando, il 26 novembre del 2002, il Ceps ha aperto un ufficio a Caracas e ha autorizzato una cittadina spagnola a rappresentarlo di fronte alle istituzioni locali, si è aperta un’autostrada di carichi di quattrini spostati a vario titolo dalle casse chaviste a quelle della fondazione. Nell’atto di nascita dell’istituto c’è scritto che l’obiettivo era “l’aiuto ai paesi in via di sviluppo, specialmente in America latina e in Africa”. A seguire la rotta dei soldi denunciata dal Nacional, invece, si direbbe che l’aiuto è arrivato in senso inverso. Meta finale, la Spagna.

 

Uno dei miracolati del Ceps pare essere proprio Pablo Iglesias di Podemos. Non si sa bene a quale titolo, lo chiamano a Caracas per impartire corsi per funzionari del ministero dell’Interno e della Giustizia già nel 2006. Ben cinque giorni di corso, dal 5 al 9 giugno, per farcire i poveri quadri chavisti di lezioni su neoliberismo e critiche alla globalizzazione. Evidenza di legami innegabili tra Podemos e Ceps non c’è. Nemmeno è possibile inchiodare Viciano all’ammissione di far parte dell’organizzazione. Però ci sono curiose coincidenze. Per esempio c’è il premio Libertador al Pensamiento Crítico, premio in denaro deciso dal ministero della Cultura venezuelano a insindacabile giudizio dei suoi esperti, che viene dato nel 2010 a Luis Alegre, ex membro del consiglio esecutivo di Podemos, ora passato ad altri incarichi organizzativi sempre dentro il movimento spagnolo che, a vedere come è strutturato, sembra molto meno liquido di quanto si vanta d’essere. Nessuna pistola fumante però. A parte la lista Falciani e i soldi venezuelani (di governo, non della vecchia oligarchia) saltati fuori nello scandalo dei conti segreti in Svizzera scoppiato un mese fa.

 

Di certo c’è solo che tra il 2004 e il 2012 i soldi arrivati dalle casse pubbliche venezuelane al Ceps, quelli arrivati direttamente, sono 3 milioni e duecentomila dollari, trasferiti in 52 operazioni diverse. Nel 2014, dopo la stretta ai cordoni della cassa chavista, resa necessaria dalla crisi di liquidità sofferta dal Venezuela – che è sì esportatore di greggio, ma ha già venduto (soprattutto ai cinesi) i profitti del suo export del prossimo futuro in cambio di una linea di credito – il Ceps ha continuato a ricevere soldi e risulta essere una delle tre fondazioni culturali alle quali il Cencoex – il temibilissimo ente autorizzato dallo stato a distribuire dollari – ha accordato elargizioni di denaro.

 

Il documentario per la tv iraniana

 

L’ultimo pagamento della Banca centrale venezuelana risalirebbe al Natale scorso. E’ di 60 mila dollari. Questo risulta al quotidiano spagnolo Abc che ha dato notizia di un contratto firmato tra il primo vicepresidente della Banca centrale venezuelana,  Edomar Tovar, e il rappresentante legale della Fondazione Ceps, Sergio Pascal Peña. Il numero dell’operazione è: 009-2014. Nella pagina due del contratto c’è scritto che la conversione dei bolívares, moneta nazionale venezuelana, deve essere fatta al tasso preferenziale che si usa per l’importazione di alimenti e medicine. Secondo il controllo di cambio vigente in Venezuela (tanto stretto quanto folle: tre prezzi di cambio ufficiale per il dollaro al momento, senza contare poi il mercato clandestino) questo è un tasso riservato alle spese necessarie.

 

[**Video_box_2**]I servizi prestati dalla persona che risulta pagata in questo ultimo giro di soldi, Manuel Cerezal Callizo, sono di consulenza per l’analisi periodica della congiuntura economica nazionale e internazionale. C’è un precedente, l’anno prima. Un contratto per una devoluzione di soldi della Banca centrale alla Ceps, sempre firmato da Edomar Tovar, per un ammontare di 20 mila euro. Il giornale spagnolo, scatenato nell’inchiesta sui supposti finanziamenti venezuelani a Podemos prima delle amministrative di questo mese, sostiene di aver avuto accesso a due contratti sottoscritti da Tovar e da Pascal Peña, nel 2013 e nel 2014. I soldi sarebbero arrivati solo questa volta direttamente dalla Banca centrale. Finora avrebbero fatto da tramite diverse istituzioni, comprese la Compagnia nazionale di telecomunicazioni e la Segreteria della presidenza della Repubblica.

 

Grande eco ha avuto in Venezuela la notizia dell’incontro del 3 marzo a Ginevra tra Juan Carlos Monedero, numero tre di Podemos, e due chavisti, a ridosso di una conferenza sui diritti umani tenuta nella sede delle Nazioni Unite. Qualche giorno dopo Podemos si è rifiutata di appoggiare una risoluzione del Parlamento europeo di condanna alla detenzione di personaggi dell’opposizione venezuelana. Podemos contesta la definizione di “arresto arbitrario”, anche se i leader dell’opposizione finiti ultimamente in carcere sono stati con ogni evidenza arrestati per lo svolgimento della loro attività politica.

 

I cronisti del Nacional raccontano un episodio, accaduto a Caracas nel 2013, dopo la morte di Chávez. Seduti al ristorante “La Hostería”, nella zona dei palazzoni di cemento del Parque central, un gruppo di spagnoli stava parlando a voce alta di un documentario sulle conquiste sociali della rivoluzione chavista. L’atmosfera era tesa in quei giorni. Non si sapeva che direzione avrebbe preso il governo, né se avrebbe resistito. I chavisti dicevano di temere il colpo di stato. Gli antichavisti di temere un autogolpe. Il clima in giro era cupo.

 

Un tavolo di clienti caraqueñi ascolta la conversazione dei militanti europei e qualcuno si incazza. “Venite a vivere un periodo qui nei quartieri, venite a San Augustín e vedete come vanno le cose da queste parti, no?”, dice qualcuno agli spagnoli. Segue breve discussione, abbastanza civile. Poi zitti tutti. Al Nacional giurano che tra gli spagnoli c’erano Pablo Iglesias e Juan Carlos Monedero. Dicono che i camerieri della Hostería confermano. Il documentario di cui stavano discutendo è quello su Chávez fatto da Iglesias per la televisione iraniana HispanTv, uscito nell’agosto del 2013, dove compare a più riprese Monedero, che è il principale intervistato, come osservatore estero. Propaganda pura.

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