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Piccola posta

Le ragioni segrete di chi fotografa il Beato Angelico (senza farsi un selfie)

Adriano Sofri

Dai chiodi ai nastri, dalle mani scolpite alle ciabatte miracolose: lo smartphone diventa un taccuino visivo che salva i dettagli e l’aura, trasformando ogni visita in una raccolta di ricordi da riesumare — magari davanti a una nipote di Ferragamo

Caro Antonio Gurrado, ho letto il tuo spiritoso interrogativo sulle ragioni per cui i visitatori della gran mostra del Beato Angelico si profondono in fotografie, “senza distinzione d’età”. Appunto, se fosse successo che tu arrivassi a Palazzo Strozzi quando c’ero anch’io, mi avresti beccato, vecchietto, a fare fotografie col mio iPhone. Non tante, ma un po’. Il fatto è che io, dunque immagino parecchi altri come me, uso il telefono per prendere appunti, invece di prendere appunti. Questo riguarda soprattutto dei particolari che mi interessano, e non è detto che li ritrovi nei libri illustrati o nel magnifico catalogo. Non so, scrivo un libro sul chiodo e fotografo il mazzo dei tre grossi chiodi che un devoto tiene in mano sotto la Deposizione di Santa Trinita. Scrivo un libro sul nodo e fotografo il nastro celeste annodato sul petto del Bambino della Madonna della Melograna. (L’ho scritto tanti anni fa, ma non si perde l’abitudine). Fotografo le ciabatte posate sotto il letto del diacono Giustiniano, al quale i santi medici Cosma e Damiano stanno trapiantando una gamba nera al posto della sua bianca andata in cancrena - saranno di nuovo utili, quelle ciabatte. Non scriverò un libro sulle ciabatte, benché... Un giorno, in una conversazione in treno, non so, capiterà l’argomento, e potrò mostrare il mio ingrandimento delle ciabatte a una nipote di Ferragamo. Il mio telefono è per esempio un ricco archivio di mani, dipinte o scolpite, hanno preso il posto delle innumerevoli scatole (di scarpe, per lo più) in cui riposano le migliaia di cartoline illustrate, “viaggiate” o nuove, che lascerò agli sfortunati eredi.

 

Ho notato anch’io che i visitatori della mostra non si rovinano in selfie. L’Angelico non si presta. Però tu hai deciso di ignorare l’aura, come se fosse una cosa del passato. Lo smartphone è il più prodigioso mezzo di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, e fotografare metodicamente i capolavori dell’Angelico, proprio lì, tutti insieme, splendenti del restauro appena compiuto, vuol dire portarsi via se stessi come reliquie di un’esperienza: ero là, eravamo là. Questo per spiegare l’indulgenza speciale, e l’autoindulgenza, con cui vedo la dedizione calma, più che accanita, alle fotografie dei capolavori in mostra. In altri tempi ci si sarebbe fatto un segno della croce. (Anche oggi, forse, bisogna ancora allargare il pubblico delle mostre).

 

Volevo dirti un’ultima cosa. Alle mostre di Palazzo Strozzi conviene andare nel pomeriggio, in tempo per quando fa buio. Nelle grandi bifore allora si specchiano le opere esposte, ed è il momento migliore per fotografarle, riflesse: fatte uscire all’aria. E’ come se si fosse aggiunto un proprio tocco personale. 

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