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Antonio Tabucchi e la (presunta) coltivazione dei pomodori di Beato Angelico
Due scrittori fuori dal “mestiere”, Elsa Morante e Antonio Tabucchi, si misurano con Fra' Giovanni da Fiesole e con i suoi angeli: tra rievocazioni poetiche, anacronismi voluti e piccoli miracoli letterari, il pittore di San Marco torna oggi a incantare il pubblico con una luce che non smette di farsi interrogare
Ci sono due testi sul Beato Angelico, di una grande scrittrice e di un grande scrittore che non erano del mestiere, e di ambedue ebbi la fortuna di essere amico. Si sono fermati ambedue specialmente sugli angeli, mezzani fra le nubi del cielo e le zolle della terra.
Uno è di Elsa Morante, che lo scrisse nel 1970 per il volume della famosa collana Rizzoli dei “Classici dell’arte”. Inaugurata nel 1966 e conclusa nel 1985, dopo 111 monografie, affidò molti dei testi a illustri scrittori e poeti. Morante intitolò – il titolo fu certo suo – “Il beato propagandista del Paradiso”, rinobilitando una parola religiosamente carica, la propaganda fides, e laicamente sospetta e devota alla bruttezza – ai nostri giorni ha vinto la seconda accezione. Elsa sembrò quasi rammaricarsi che le fosse spettato l’Angelico, piuttosto che “i suoi santi, Masaccio, Rembrandt, Van Gogh”, quelli che “portano nel corpo i comuni segni della croce materna, la stessa che inchioda noi tutti”. “Costui invece, il Beato, si direbbe nato già col suo corpo luminoso”. Ci appare ancora così? Venuto alla luce? “Beato lui”?
Antonio Tabucchi gli dedica un racconto di una decina di paginette, che dà il titolo alla breve raccolta nella Memoria Sellerio: “I volatili del Beato Angelico”. Nella prima di queste paginette, scrive che Fra’ Giovanni, per non abbandonare il mestiere di suo padre, anche a San Marco curava l’orto, e “coltivava pomidori, zucchine e cipolle”. Però lui visse dal 1395 al 1455, e il pomodoro arrivò in Europa dall’America del centro e del sud nel ’500, e in Italia il primo, pare, proprio in Toscana, a Pisa, in dono a Cosimo de’ Medici, nel 1548 – un secolo dopo. E si chiamò così, pomo d’oro, perché era giallo e non ancora rosso. Presto tuttavia se ne ricavò una varietà “rossa gagliardamente”. E sempre dall’America arrivò nel Cinquecento la zucchina. Sicché all’orto di Fra’ Giovanni in San Marco non restavano che le cipolle. Che del resto Tabucchi dice “di quelle rosse…, molto dolci…, che fanno assai lacrimare gli occhi…”.
Ora una distrazione succede, ma mi sembra difficile che Tabucchi non si sia accorto del suo anacronismo, e che nessuno gliel’avesse fatto notare, tanto più che quella triade verduraria, “pomidori zucchine e cipolle”, la ripete tale e quale altre due volte nelle poche pagine successive. E poi avrà saputo anche che l’Angelico a San Marco era esonerato dai lavori manuali. Avrà deciso, serenamente, di colorare l’orto di Fra’ Giovanni di rosso e verde. Il suo racconto è anche infatti un contrappunto letterario allo spiegamento di colori del Beato. Come nel primo volatile, un gallinaccio coloratissimo, di piume ocra, gialle, turchine e di un verde smeraldo come quello del martin pescatore…”. Tabucchi gli regalò il piccolo miracolo dei pomidori, e il Beato Angelico lo ha ricambiato rimettendo in bella mostra a Palazzo Strozzi il suo volumetto azzurro del 1987, che adesso va a ruba.
(Della Mostra, condivisa da Palazzo Strozzi e Museo di San Marco, scrisse qui presto e benissimo Maurizio Crippa, “Fra Giovanni, pittore di luce e santi, messo nella giusta prospettiva”, 29 settembre. Ora, quando mancano alla chiusura prevista ancora 52 giorni, i visitatori sono stati più di 120 mila. Bisognerà spiegarsi un tale concorso. Alla fine, senza andare tanto lontano da quello che aveva scritto Giorgio Vasari: tavole “belle a meraviglia”, angeli “molto belli”, “azzurri oltramarini bellissimi”, teste “veramente graziose e molto belle”, libri miniati “tanto belli che non si può dir più”, figure “belle quanto più non si può dire”, “storiette bellissime”, “et infinite figurine, che in una gloria celeste vi si veggiono, tanto belle che paiono veramente di paradiso, nè può, chi vi si accosta, saziarsi di vederle”. La più felice autorizzazione universale a guardare e dire senza soggezione: “Che bello“).