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Piccola Posta
La politica votata alla resistenza non tiene Zelensky al riparo dai guai interni
Il presidente ucraino non ha voluto o potuto far argine a una piena che sarebbe inesorabilmente montata. Ora la crisi militare si somma a una crisi politica clamorosa. E gli alleati europei? Hanno un'opinione?
Non mi illudo di seguire tutto quello che viene pubblicato, ma ho la stupefatta impressione che non un governo, non un governante, dei paesi che stanno ufficialmente al fianco dell’Ucraina abbia fatto conoscere, agli stessi ucraini e ai propri cittadini, un’opinione sulla condizione del paese e i problemi drammaticamente crescenti che si trova ad affrontare. Nessuno, salvi i falsi alleati, in realtà complici dell’aggressione russa, da Orbán allo slovacco Fico, e soprattutto a Donald Trump. Un fenomeno, Donald Trump, iscritto dentro due connotati robustamente congiunti: un’imbecillità colossale, di quelle che una socievolezza decente terrebbe a distanza, e una ricattabilità totale e vistosa, le cui carte migliori stanno in mano a Putin e ai suoi. Costoro puntano sulla sconfitta dell’Ucraina e sull’umiliazione di Zelensky, e sulla ripresa alla grande degli affari con la Russia.
Ma che cosa pensano davvero gli alleati sinceri dell’Ucraina, e prima di tutto i governi europei, quelli che sono persuasi che la sua difesa coinvolga la propria difesa? Essi hanno, almeno pubblicamente, delegato interamente la vita civile ucraina a Zelensky e tutt’al più al suo ufficio di presidenza, un organismo pressoché di compagni di scuola, amici e soci in affari, limitando i propri interventi a raccomandazioni sull’adeguamento alle regole (supposte) dell’Unione europea o degli stati di diritto, e in particolare sulla lotta alla corruzione e, ogni tanto, sulla tutela dell’indipendenza della magistratura.
E’ scontato che abbiano avuto una consistente partecipazione, sia pure coperta – benché non sempre, rivelazioni top secret sono a volte emerse – sulle operazioni militari. E si sa che abbiano tentato di influire su una questione che si è fatta via via più drammatica, a distanza di quasi quattro anni, come la mobilitazione, chiedendo di abbassare l’età della leva a 18 anni: invano, e la coscrizione obbligatoria è ancora a 25 anni, e Zelensky, che ha tenuto duro sul punto, a suo tempo anche nel confronto diretto con Zaluzhnyi, sa che oggi una decisione simile varrebbe la rivolta aperta di giovani e famiglie (nemmeno Putin, che non bada a spese di macelleria domestica, si sente di decretare la mobilitazione generale).
Ma è un altro il problema, e Zelensky, cui si deve un ruolo decisivo nella resistenza del paese alla violenza inaudita dell’aggressione, che ne trasformò la fisionomia sbiadita ad appena tre anni dall’elezione travolgente del 2019, ha visto inevitabilmente mutare la propria situazione attraverso una durata così lunga e pesante della guerra, e in un mutamento così rocambolesco della scena internazionale. Ha puntato tutto sulla resistenza, senza volere o potere far argine a una piena che sarebbe inesorabilmente montata, con un nemico che aveva fatto della minaccia atomica un confine insuperabile al diritto di difesa ucraino. La conduzione politica interna si è svolta, nella cornice stretta della legge marziale, alla giornata, tamponando di volta in volta le falle con misure d’emergenza, rimpasti governativi, epurazioni di amministratori, ricambi di responsabili militari, emarginazioni di concorrenti reali o presunti, compresi uomini e donne fra i più affidabili.
A questa distanza, la leadership ucraina, quella visibile a chi osservi dall’esterno, si riduce a pochissime persone, toccate esse stesse, alcune dall’origine, da sospetti di corruzione, malversazioni, clientelismi. Ieri Yermak ha dichiarato, sul suo onore appunto, che Zelensky è uomo di grandi principii e che non è corrotto. E, per garantismo, che “prima di giudicare occorrono processi e sentenze”. Zelensky aveva detto che occorrevano carcere e condanne, e presto (ieri un’ulteriore indagine ha opposto il procuratore capo dell’Ufficio anticorruzione SAPO al suo vice, accusato di aver avvertito l’ex socio di Zelensky, Timur Mindich, che è sfuggito alla cattura riparando all’estero).
Non mi pare che stare dalla parte dell’Ucraina, com’è di ogni persona libera e non vile, consigli di colorare l’orizzonte. Negli ultimi giorni, forse non a caso, si è sommata una crisi militare su più punti del fronte a una crisi politica clamorosa. Strutturale, per così dire, la militare, dato il divario di forze sul terreno e il divieto di fatto agli ucraini di colpire alle fonti degli attacchi russi. Aggravata, la crisi politica, dall’eco della mossa azzardata di luglio, di mettere fuori gioco le agenzie anticorruzione, ritorta contro Zelensky e i suoi parlamentari dalla insurrezione dei giovani e delle strade. L’ombra di quella mossa ora si allunga sull’inchiesta attuale il cerchio della presidenza, che i toni deliberatamente drastici di Zelensky faticano a esorcizzare. Così come le sue visite coraggiose nelle peggiori prime linee, a Zaporizhia o a Kherson – dov’era andata senza altri fini, coraggiosa, Angelina Jolie. Alla congiuntura di crisi politica e militare basterebbe una scintilla per aggiungere una crisi sociale, di gente impoverita, al freddo e al buio, esausta, e qualcuno può già esservi tentato: fra gli ultras nazionalisti, per esempio. Già qualche imbonitore chiama a Maidan, e avverte di repressioni sanguinarie che si preparano.
Fino a un certo punto, i sondaggi avevano un andamento gradualista, per così dire: scendeva progressivamente il consenso per Zelensky, com’era naturale. Non è più così, la discesa ha incontrato i suoi gradini. Oggi, pressoché nessuno scommetterebbe su una sua rielezione all’indomani della guerra, tregua o armistizio o pace. E d’altra parte la fine della guerra resta lontanissima, salvi imprevisti (l’epoca è imprevedibile), ora che si avvicina il vero sogno che inebria Putin, di mostrare la leadership ucraina invisa al suo stesso popolo al momento di festeggiarne la sostituzione con un proprio quisling. Una sostituzione intestina di Zelensky, tentata alle sue spalle, sarebbe un’avventura tragica. Una progettata da lui e da suoi fedeli, magari con la motivazione dichiarata di favorire l’apertura di negoziati, non sembra nel conto. E poi ci sono i militari, fino ai trinceristi della nebbia di Pokrovsk, che sentono dello scandalo di Energoatom e della Difesa.
Dunque: e gli alleati? Hanno, e intendono prospettare, un’opinione, prima che le cose li costringano – o li autorizzino – a lavarsene le mani, come se non c’entrassero? L’Ucraina non è un protettorato, ma la solidarietà fra paesi che si vogliono democratici non si ferma alla frontiera. Né tra i paesi europei, né tra loro e l’Ucraina (o si sono rassegnati, ciascuno con la propria acqua alla gola, a che la democrazia sia quel sistema che non può prevedere un piano B?).