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Piccola Posta

Gli alleati troppo esigenti con Kyiv e troppo poco con se stessi

Adriano Sofri

Un calcolo dell'Economist avvertiva che la conquista delle quattro regioni pretese da Putin richiederebbe altri cinque anni, "al passo attuale". Ma l'Ucraina quanto riuscirà a reggere il "passo attuale"?

Volodymyr Zelensky deve stare molto attento a come parla. Qualunque cosa dica potrà essere usata – da Donald Trump – contro di lui. A Washington è stato molto attento. Rimesso piede in Europa, ritoccata terra, per così dire, ha detto un paio di cose. Di aver sentito voci sul suo dovere di consegnare a Putin l’intero Donetsk, e ha precisato di non averne l’intenzione. Ha invece dichiarato di avere tutta l’intenzione di partecipare al vociferato prossimo incontro fra Trump e Putin. Per la verità, se non avvenisse, sarebbe un vero scandalo. Budapest è una capitale europea, dell’Unione europea per giunta, e benché sia infeudata, povera, alla Federazione Russa, è pur sempre al seno europeo che si nutre.

Infeudato, o qualcosa del genere, al boss della Federazione Russa è anche Donald Trump, e chi ancora ne dubitasse dovrebbe escogitare un’altra ragionevole spiegazione al suo comportamento. Scegliendo la Budapest (magnifica, eh) di Orbán, Trump ha voluto compiacere il suo socio al Cremlino. Ha ottenuto, di passaggio, di favorire la campagna elettorale pericolante di Orbán. Dettaglio interessante, sul quale è bene fermarsi brevemente. Uno dei precedenti della relazione pericolosa fra Putin e Trump sta nelle mene del primo contro la gara presidenziale di Hillary Clinton. Ora Trump sta forse rinverdendo gli allori degli sbarchi diretti in America Latina, e intanto ha avvertito il popolo argentino che gli ingenti aiuti stanziati non gli arriveranno se non dopo la conferma elettorale di Milei: dopo di che andate a deplorare gli intrighi russi. 


Ecco. Ieri un calcolo dell’Economist avvertiva che di questo passo – il passo attuale – la conquista delle intere quattro regioni pretese da Putin richiederebbe almeno altri cinque anni. Giusto argomento, e tuttavia parziale. Sono sempre sorpreso dalla imperturbabilità degli alleati dell’Ucraina rispetto alla sua tenuta militare e civile. Il calcolo dei cinque anni immagina che “il passo attuale” possa essere conservato immutato, al fronte e a casa. Ma, pur di esigere poco da sé, si pretende troppo dall’Ucraina. E da Zelensky. Se l’Ucraina si è salvata, se si salverà, è stato e sarà soprattutto grazie a lui. Ma il destino dell’Ucraina non coincide con quello di Zelensky, che ha voluto ricordarlo quando, sia pure a bassa voce, ha detto di non volersi ricandidare a guerra finita. Intanto la guerra che continua e la legge marziale producono, com’è inevitabile e come chiunque sia solidale con l’Ucraina – io lo sono con tutto il cuore – una riduzione delle libertà e un rafforzamento del centralismo e del nazionalismo. La società ucraina è attraversata da sentimenti diversi e apertamente espressi.

Si è osservato più volte che, con eccezioni anche incresciose, la libertà di movimento che l’Ucraina ha lasciato al giornalismo internazionale e alle stesse visite di civili stranieri è piuttosto rara in un panorama segnato, come paradossalmente a Gaza, dal bando rigoroso dell’informazione internazionale e da una censura interna di fatto, e a volte di diritto. La ribellione alla temeraria misura contro le agenzie anti corruzione, seguita da un precipitoso ripensamento, ha mostrato su quale delicato crinale si muovano la presidenza ucraina e l’obbedienza del parlamento. Chi segua l’andamento dei social – è alla portata di tutti, almeno per Facebook, che fornisce una traduzione immediata, benché ancora abborracciata – scopre una fortissima diversità di opinioni e un altrettanto forte modo di esprimerle. Zelensky e i suoi leggono l’Economist, e si saranno chiesti se e a che costo l’Ucraina possa affrontare cinque anni “di questo passo”. Non hanno ceduto e non cedono all’esortazione – o all’intimidazione vile, nel caso di Trump – alla resa. Ma sanno che Putin fa conto di poter durare a un costo assai minore, “di questo passo”, alla guerra, e che non ha rinunciato alla versione della vittoria che più gli sta a cuore: fiaccare la resistenza della gente ucraina e sbandierare, se non un desiderio, una rassegnazione a tornare nelle sue grinfie. Fra cinque anni, se Dio vuole – Dio è dalla sua, al momento – Putin avrà 78 anni, Trump 84 e sarà ancora il re, come nel film di ieri in cui, incoronato, rovescia merda dal cielo - il cielo è dalla sua, per il momento – sui concittadini repubblicani. Zelensky è già stato tradito, era nel conto, benché il conto si sia rivelato molto più esoso che nelle previsioni.

Trump, che si vanta l’uomo più potente del mondo, è nella manica di Putin, che concorda la rotta dell’aereo per Budapest, la capitale in cui la Russia firmò, in cambio dell’arsenale nucleare, la solenne salvaguardia dell’indipendenza ucraina. E’ in situazioni simili che si invoca la mossa del cavallo. A Kasparov è stato appena riservato un nuovo mandato di cattura russo per terrorismo. Forse la mossa del cavallo non c’è, forse lo stallo è l’unico orizzonte. Tornando alle origini, se la Russia non vince, ha perso. Se l’Ucraina non perde, ha vinto. Abbiamo vinto.