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Piccola Posta
Pace o tregua, a Gaza si assiste a un'illusione ammantata di autoglorificazione
Trump si vanta di aver portato una pace millenaria, di aver trasformato “la loro guerra” nella sua pace, di essere più che fiducioso. Siamo a questo punto. A contare su una pace che si faccia non per amor di pace, ma anche per un grottesco e contraffatto amor proprio
Il governo israeliano ha deciso inesorabilmente di vietare l’ingresso a Gaza di giornaliste e giornalisti internazionali – una differenza cruciale rispetto all’Ucraina. Una decisione che ha inficiato in radice l’accusa ai giornalisti palestinesi dentro Gaza di essere accoliti o comunque dipendenti da Hamas. Jean-Pierre Filiu (1961) è uno storico e arabista, già diplomatico, docente di Sciences Po, editorialista del Monde. Già autore di “Gaza, una storia” (2014), è riuscito a entrare a Gaza nel dicembre del 2024, con Medici Senza Frontiere, e trascorrervi più di un mese, riferendone in un libro, ora tradotto per Altrecose (il Post-Iperborea), col titolo “Niente mi aveva preparato. Un reportage da Gaza”. Gli è successo di trovarsi ancora là nel giorno in cui fu dichiarata la tregua, il 19 gennaio 2025, dunque di testimoniare dei sentimenti della popolazione gazawi in una situazione molto simile e molto diversa da quella attuale. Di constatare che Hamas, che “aveva preferito consegnare centinaia di migliaia di suoi compatrioti alla rappresaglia israeliana”, aveva “mantenuto un apparato abbastanza solido da essere dispiegato non appena proclamata la tregua”. “Quanto alle ruggenti dichiarazioni sulla ‘vittoria totale’ contro Hamas, dopo quindici mesi di devastazioni sono servite solo a rimettere il movimento islamista al comando dell’enclave”. La tregua sarebbe stata rotta il 2 marzo e i bombardamenti ripresi due settimane dopo.
Intanto la gente di Gaza aveva respirato e, senza crederci, ci aveva creduto. Già questa volta, “subito dopo la sospensione delle ostilità, masse di sfollati decidono di tornare il più in fretta possibile verso quelle che erano le loro case… Frugano tra le macerie per cercare di dissotterrare una padella, degli attrezzi, dei vestiti miracolati, qualche briciola della loro vita precedente. Un vecchio si riempie la bocca della terra di Rafah, “la più dolce del mondo”, un giovanotto si gonfia i polmoni con l’aria di Rafah, “la più dolce del mondo”… Le parate dei miliziani dal volto coperto delle brigate al Qassam sono le più coreografate, con cartelli in onore di Hamas distribuiti ai bambini lungo il percorso. Dei videomaker già sul posto possono così immortalare il minuto di gloria di quelli che prima si nascondevano sottoterra mentre i loro compatrioti venivano massacrati”.
La gioia che viene dalla fine, anche solo dall’interruzione, dei bombardamenti e delle morti, dal fuoco cessato, anche il più incerto, il più sospetto, che fa abbandonare di colpo le tende di fortuna, le bottegucce impiantate lungo le strade dell’andirivieni delle evacuazioni, di una imprudenza, per chiamarla così, ma deliberata, è, allora come oggi, la sconfessione più netta e insieme più ovvia ai denti stretti di alcuni spettatori estranei, che si erano vantati e magari creduti davvero i più solidali con i bombardati e affamati e umiliati. “Nel primo giorno di tregua l’Onu manda 630 camion nella Striscia, di cui la metà nel nord, per rifornire la città di Gaza… Come per miracolo, i saccheggiatori sono scomparsi”. Ma “i tre garanti dell’accordo moltiplicano le conferenze stampa traboccanti di autocompiacimento a Washington, a Doha e al Cairo, mentre nessuno di loro assicura una presenza a Gaza per verificarne l’effettiva applicazione… Un accordo degno di questo nome avrebbe necessitato di garanzie ben più solide, e soprattutto di un meccanismo di supervisione sul campo…
A diecimila chilometri e sette fusi orari da Gaza, Trump si attribuisce fragorosamente il merito della tregua, vedendovi la conseguenza diretta della sua scelta della “pace con la forza”, un’espressione che martella in maiuscolo sui social. Si è appena impegnato davanti ai suoi sostenitori in tripudio a “fermare il caos in Medio Oriente” ed “evitare una Terza Guerra Mondiale”. Ma non appena insediato alla Casa Bianca, il nuovo presidente tempera questo ottimismo paragonando la Striscia di Gaza a un “cantiere di demolizione” e confessando di non essere “sicuro” che la tregua reggerà: “Non è la nostra guerra, è la loro guerra. Ma non sono fiducioso”.
Tutto letteralmente uguale quanto alla premessa, diversissimo quanto alla conseguenza: ora Trump si vanta di aver portato una pace millenaria, di aver trasformato “la loro guerra” nella sua pace, di essere più che fiducioso. Siamo a questo punto. A contare su una pace che si faccia non per amor di pace, ma anche per un grottesco e contraffatto amor proprio. Forse dura.