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Piccola Posta

Riuscire a restare se stessi, dunque soli, pur entrando dentro a un corteo

Adriano Sofri

Di fronte alla scelta se entrare nel corteo o prenderne le distanze, viene in mente la vecchia formula della folla solitaria: partecipare senza pretendere di sottoscrivere opinioni e slogan di tutti coloro che la folla la compongono. E tenersi stretta la solitudine, senza rinunciare alla propria solidale condivisione 

Di colpo la ressa sparpagliata del sovraturismo ha fatto largo alle folle compatte dei manifestanti. I roditori del consumo delle città storiche accantonati dagli aspiranti attori della storia contemporanea. Non era bastato il disgustoso divario fra ricchezza e povertà, spinto oltre la misura, né i segni dell’agonia del pianeta, né la reazione del nazionalismo imperiale tradotta nell’aggressione bellica e nella minaccia atomica: è toccato a una crisi endemica che si credeva cronicizzata e tenuta a bada, come quella mediorientale e precisamente israelo-palestinese, di registrare l’assalto sfigurato del 7 ottobre e la vendetta sfrenata della destra israeliana. C’è un punto in cui la misura è colma, e trabocca. La pazienza delle persone, mitridatizzate che siano, ha un limite. Che a farlo superare abbiano contribuito l’illesa profondità dell’invidia antiebraica e la rivelazione dell’assuefazione alla prepotenza sui palestinesi è senz’altro vero, ma non cambia l’esito: gente che ha detto basta. Gente: dagli scolari ai fuori corso, ai genitori e ai nonni che vengono coi bambini. Non si può mostrare ogni giorno la strage di bambini d’altri senza sentire minacciati e solidali i propri.


C’è di nuovo, come altre volte, la sensazione di “sapere da che parte stare”. E’ un’illusione? Credo di no, purché si riconosca una condizione relativa alla parte da cui stare. Il tempo così acceso pretende di passar sopra alle distinzioni: di entrare nel corteo o prenderne la distanza. Ognuno troverà la sua risposta. A me, al mio usurato spirito militante, viene in mente la vecchia formula – era del 1950 – della folla solitaria, sia pure per rovesciarla e farne un proposito. Mi sembra di aver imparato, a prezzi esosi, come restare se stessi, dunque soli, anche accomunandosi, entrando nel corteo, quando e finché vada nella direzione giusta. Sapete, il domestico del “Sant’Ambrogio” di Giusti, che si trova con ribrezzo al cospetto della soldataglia di Boemi e Croati, e però, quando la loro banda intona il coro del Verdi, quello: O Signore, dal tetto natio, Che tanti petti ha scossi e inebriati, Qui cominciai a non esser più io; E come se que’ côsi doventati Fossero gente della nostra gente, Entrai nel branco involontariamente. Altra situazione, certo. Ma si sta raramente, tanto più oggi, da una sola parte, senza residui.

Per me, io avrei desiderato cordialmente di imbarcarmi con la flottiglia, e l’ho seguita con ammirazione, senza pretendere di sottoscrivere opinioni e slogan di tutti e ciascuno dei loro equipaggi. Entro senz’altro nei cortei di ieri e di oggi (e di domani, spero), obiettando alla rima dal fiume al mare, e indagando su quante e quanti hanno imparato che cosa significhi. Se esito a dire, nel mio pianerottolo, che cosa pensi di Francesca Albanese, è solo perché immagino facilmente che me ne verrà l’approvazione di persone dalle quali dissento, e la disapprovazione di altre con cui consento. E così via. Per chi non sia natoieri – lo scrivo tutto attaccato, non è una nozione anagrafica – il punto è, mi pare, di tenersi stretta la propria solitudine, senza rinunciare alla propria solidale condivisione. In famiglia, in società, in un giornale, in un corteo. Nel mondo. 

 

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