Commemorazione per i trent'anni del genocidio di Srebrenica, a Sarajevo (foto Ansa) 

Piccola Posta

La Jugoslavia aveva anticipato quasi tutto, anche la Russia di Putin

Adriano Sofri

Elvira Mujcic racconta la sua storia attraverso quella di una bambina, Eliza, che tiene un diario poetico e smascheratore. Nel libro le vicende si svolgono a "S.", così chiamata forse per allontanare l'effetto travolgente del nome di Srebrenica. Luogo da cui si scappa e in cui poi si ripara

Livia Chiriatti è nata nel 1995, ha festeggiato i suoi trent’anni mentre commemoravamo i trent’anni da Srebrenica – a dicembre toccherà agli accordi di Dayton, e si ripenserà a come possono finire le guerre e le carneficine, male, purché intanto finiscano. Ieri qui, nella “Fogliata di libri”, Chiriatti ha recensito con limpida naturalezza l’ultimo romanzo di Elvira Mujcic, La stagione che non c’era (Guanda). La stagione era quella del 1990, Mujcić aveva dieci anni, appena meno della bambina Eliza del suo racconto. Stavo pensandoci anch’io. Ho ascoltato Mujcic in più occasioni, legate alla sua vita di scrittrice italiana nata a Srebrenica e ai suoi pensieri sulle lingue, sulle appartenenze e le disappartenenze. Ho visto che è molto intelligente, di un’intelligenza minuziosa e pronta a scartare, e mi sono detto – deplorevolmente – che un’intelligenza così potesse nuocere alla scrittura narrativa, esponesse persone luoghi e fatti all’arringa, che è una delle ragioni per cui non so scrivere un romanzo. Forse si dev’essere o un po’ meno intelligenti, o molto più. Come lei.

E poi Mujcic chiama Sarajevo “Sarajevo”, e solo S., qui e altrove, il paese della Bosnia orientale in cui si svolge la sua storia, come per allontanare l’effetto travolgente del nome di Srebrenica – o del fiume, la Drina, e per far dimenticare la sua biografia, salvo farla sentire più forte dopo la lettura. La bambina Eliza tiene un diario, poetico e smascheratore, è dunque una scrittrice, insieme coprotagonista e conarratrice, e rivelatrice delle altre persone. Le insegnano che è male fare la spia, e che se scopre qualcuno che fa la spia deve denunciarlo; ma allora non farei io la spia? – obietta. Per lei, Mujcic decide di scrivere come scriverebbe Dostoevskij delle sue madri e delle sue bambine: “Merima, sua madre / è scesa giù, pallida come i muri della sua stanza, magra che quasi non la trovavi in mezzo ai vestiti. Si è seduta a terra, ha preso posto al tavolo basso, suo padre accanto, io di fronte. Dovevi vedere la bambinetta! Non stava più nella pelle tanta era la gioia, non ci aveva mai visti tutti e tre insieme, si sperticava in capriole, girava su se stessa fino allo svenimento, batteva le mani, poi si lanciava in braccio a Merima...”.

Merima ha 29 anni, una fiera fedeltà a due amori scelti per sempre e presto traditori, a un uomo e a un partito. Il suo vicino di casa e di infanzia affettuosamente ironico quanto alle fedeltà ideali, insofferente dell’angustia paesana, se ne va a Sarajevo – là la prima ragazza gli chiede: “Sei andato via nel senso che sei scappato?”. “No, non sono scappato, sono uscito con calma e ho lasciato un biglietto” – e torna al paese e alla casa dei suoi, che non sente sue, né l’uno né l’altra. E al paese è Merima a chiedergli perché era scappato da casa: “Ma non sono scappato! Me ne sono solo andato”. E’ uno che ricomincia da tre. (Come si dice scappare indietro? – tornare non va bene, tornare implica una voglia del luogo in cui si torna piuttosto che una stanchezza di quello che si lascia – forse “riparare”? Riparare a S.? Sarebbe successo a tantissimi, di riparare a Srebrenica).

Alla fine, quando chiunque cercherà di andarsene, rimane: “Non che non abbia un posto dove andare, è che non vedo il senso di andare da qualche parte”. Si chiama Nene, ha 27 anni, una sobria ambizione d’artista, e soprattutto da curatore, come si dice di chi vive di allestimenti di mostre e di musei: lui si prende cura del presente, dal momento in cui si accorge che il suo mondo sta finendo, con uno sguardo da successore, dunque raccogliendo segni del tempo, cimeli, reliquie, cose di tutti i giorni che solo dopo la catastrofe, allo sguardo “di un archeologo futuro”, si mostreranno significative. Nella Sarajevo dell’assedio e dei bombardamenti avverrà già, doppiamente: nell’ingegnosità con cui gli oggetti consueti venivano manipolati per sostituire strumenti distrutti e perduti e introvabili, e nella premura con cui si mettevano in salvo pochi leggeri ricordi del mondo di ieri. “Osservarsi immaginando un senno di poi”. Succede ogni volta di nuovo. Safran Foer ci ha puntato tutto.

C’è un libro, bellissimo, di Marta Caraion, “Géographie des ténèbres. Bucarest-Transnistrie-Odessa, 1941-1981” (Fayard, 2024). E’ una storia di famiglia attraverso gli inferi dei pogrom, delle deportazioni e dello sterminio degli ebrei nella prima metà del Novecento. Caraion vive a Losanna e insegna letteratura, e il suo titolo scientifico più recente, 2020, dice: “Comment la littérature pense les objets”. Quanto a noi, restanti veterane e veterani di quella Sarajevo, mettiamo a confronto il nostro intatto pacchetto di “Drina”, ormai fuori produzione – non si fa che fumare, nella “stagione che non c’era”, andategli a dire che il fumo fa male, a Kupiansk, a Gaza – e il resto: i bossoli di tutti i calibri, poi sequestrati ai controlli militari delle Maybe Airlines, il più scemo dei cimeli. Un pezzo di cornicione della Biblioteca Moresca bombardata e incendiata, un biglietto del tram, un poster bruciacchiato di Radio 99, canzoni soprattutto... 


La Jugoslavia era una messinscena, dice un poliziotto: “La polizia anticipa sempre lo spirito dei tempi”. La Jugoslavia aveva anticipato quasi tutto, compresa la Russia di Putin, di un decennio, compresa l’Ucraina. Mujcic ha raccontato altre volte Srebrenica, che è anche la sua storia di famiglia. Qui la sua storia, la città lasciata da bambina tre anni prima del massacro, le fa raccontare la vigilia, i mesi e i giorni scorsi sull’orlo di un baratro assottigliato fino a cedere. Da lì in poi, saranno solo i conti con la guerra, la ferocia, l’insensatezza. Di qua, lo sbigottimento e l’incredulità. Da un giorno all’altro, nel paese dove si cantava e si giurava su Tito, “avevano scoperto che nessuno era comunista, ma tutti nazionalisti”. Può succedere, non fa altro che succedere. Di non riconoscere più i propri vicini, i propri compagni e amici, i propri famigliari – di non riconoscersi più. 


Dayton, Ohio, dunque, a dicembre. Gli americani di Clinton esercitarono la “diplomazia coercitiva”, vi ebbe parte la prodigalità alcolica. Miloševic e Tudjman: “Siamo qui seduti, sorseggiando whisky”. Mujcic ricorda il dicembre del 1990 in cui Ante Markovic, l’ultimo primo ministro della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, dimissionario dopo il trionfo elettorale dei partiti nazionalisti, riceve un intervistatore. Nel palazzo del parlamento, 65 mila metri quadri, ci sono solo il portiere e Marković, che gli offre un caffè. “Mi sembrava brutto rifiutare. Allora si è alzato ed è andato nella stanza della segreteria a farmelo. Gli sono corso dietro, non avevo capito che me l’avrebbe preparato lui. ‘E chi altro, se non è rimasto nessuno?’”
 

Di più su questi argomenti: