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Piccola Posta

Togliersi la vita in carcere

Adriano Sofri

Alla notizia del suicidio di Stefano Argentino, il giovane tormentatore e assassino di Sara Campanella, c'è chi si rattrista e chi si felicita con fare vendicativo. In ogni caso non c'è nulla di peggio, per un carcerato che vuole mettere fine alla propria vita, dell'accanita sorveglianza tesa a impedirglielo

Capisco le ottime intenzioni di chi si rattrista per il suicidio del giovane tormentatore e assassino di Sara Campanella, e di chi protesta per la leggerezza con la quale si è creduto che avesse rinunciato ai propositi autolesionistici e ai ripetuti tentativi. Capisco meno le felicitazioni vendicative, anche perché commettono l’errore brutto di pensare che la sua fine risarcisca in qualche misura la morte di Sara, come se le due morti fossero anche minimamente comparabili.

Voglio però soprattutto ribadire una convinzione che mi viene dall’esperienza: non c’è niente che possa far desiderare a un carcerato di metter fine alla propria vita quanto una meticolosa, accanita, insonne sorveglianza tesa a impedirgli di togliersi la vita

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