RICERCHE PETROLIFERE DELL'ENI, 1963 (OLYCOM)

Piccola Posta

Addio a Francesco Ciafaloni, al suo sguardo accorto sulle cose del mondo

Adriano Sofri

Ingegnere all'Eni fino alla morte di Mattei, redattore sulle scienze "umane e disumane" per Einaudi, vicino ai movimenti del '68 ma immune da furori ideologici, autore di libri d'inchiesta soprattutto sull'immigrazione. Dai sindacati all'Europa, dai migranti al petrolio a Trump, aveva una capacità ammirevole di conoscere e raccontare le cose in modo circostanziato ed esatto

Mercoledì Luca Baranelli mi ha detto che era morto Francesco Ciafaloni. Loro due, quasi coetanei, sono stati molto amici. Avevano occupato dal 1970 al 1983 una stanza della Einaudi, che gli altri chiamavano “l’Ufficio politico”. Francesco era addetto alle scienze, “umane e disumane”. Lo ricordarono nel 2012 intervistati da Alberto Saibene, per l’ed. Quodlibet. Ciafaloni raccontò allora il più bello fra gli innumerevoli aneddoti su Giulio Einaudi. “Passò da Torino Joan Robinson, di cui Einaudi aveva molti libri in lista d’attesa. Bisognava spiegarle perché. Ed era ovvio che il compito toccasse, alla presenza di un benevolo Einaudi, a un redattore, cioè a me. Mentre parlavamo arrivò Gerlin, l’usciere, con una sola tazzina di caffè. Einaudi ne ordinò subito un’altra; ma intanto di chi era quel caffè che si freddava? Einaudi aveva voglia del caffè, ma Joan Robinson era ospite, era donna, ed era una dei più grandi economisti al mondo. Einaudi mi guardava ed esitava. Poi, mentre la Robinson parlava, e io cercavo di spiegare i ritardi, ammiccò, sorrise e bevve lui il caffè”. 


Abruzzese “della montagna”, Ciafaloni era ingegnere, un master in Texas, aveva lavorato all’Eni fino alla morte di Mattei, quando non si potè più. Delle sue molte e concretissime competenze, quella mineraria e petrolifera gli permise di spiegare prima e meglio di chiunque il tramonto renitente del petrolio. Avevo un’ammirazione senza riserve per il suo modo circostanziato ed esatto di sapere le cose, e in qualche occasione pubblica dei primi anni 70 citai il futuro del gas e dell’olio di scisti che avevo sentito nominare da lui: mi guardarono come se stessi millantando chissà che fesseria. Fui vendicato quando lo shale-gas fece la fortuna dei produttori americani, e la sfortuna dell’America. 


Vicino ai movimenti che precedettero e seguirono il 68, l’età maggiore e la formazione scientifica – e anti-scientista – lo immunizzarono dai furori ideologici. Ne sono testimoni i fitti interventi di quegli anni sui Quaderni Piacentini. Pensava che i sindacati, anche quando erano lenti e sordi ai nuovi protagonisti sociali e ne venivano scavalcati, restassero i mediatori dei cambiamenti possibili. Continuò a pensarlo dopo la risacca dei movimenti, e ad avvertire del “Buon uso degli elefanti” (2018): “Le organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti e dei pensionati sono le maggiori organizzazioni di massa in Italia, forse le uniche rimaste. Sono gli elefanti del sistema sociale. (...) Non possiamo essere indifferenti a ciò che fanno gli elefanti; neppure dare per scontato che ci saranno sempre, anche se non ce ne curiamo. Anche gli elefanti muoiono. La natura non lascia vuoti e ci sono grossi animali in circolazione assai peggiori degli elefanti. Ci sono i monopoli mondiali: Google, Amazon, Uber, Airbnb... Ci sono le grandi finanziarie, le grandi banche”. Un’analoga misura riservava all’Europa: “I governanti della costruzione europea hanno sbagliato molto, quasi tutto. Ma qui siamo, e senza Europa e senza euro non andiamo da nessuna parte”. Quanto a sé, preferiva annoverarsi fra gli asini. “L’asino è un animale notoriamente ostinato, disobbediente. Non esegue gli ordini che non gli piacciono, recalcitra. Qualche volta, oltre a recalcitrare, scalcia contro chi lo tormenta. Non si lascia condurre al macello senza resistere. Ma non carica in gruppo giù per un vallone come qualche volta fanno i montoni”. Scriveva così, nel 2019, a proposito dei gilet gialli che, negli autonominati portavoce, gli sembravano una versione dei nostri 5 stelle, appena votati dagli italiani, “un’azienda di sondaggi in rete, proprietaria di un partito”.


E’ stato autore di libri importanti e sempre legati all’esperienza, a una pratica dell’inchiesta, soprattutto sugli immigrati (“Il tasso di occupazione degli stranieri nel 2008 era dieci punti più alto di quello dei cittadini italiani. Il sistema Italia non ha accolto nessuno ma solo usato lavoro a basso costo”), sulla demografia (“Nessuno ha inventato un modo di avere dei ventenni senza aver avuto dei neonati venti anni prima; o senza lasciarli arrivare dai Paesi dove sono nati”), sulla sanità. (...) Italo Calvino si stupiva che fosse abbonato a bollettini statistici dell’Istat, di Eurostat, dell’Onu, del Fmi: “Leggi davvero tutti quei numeri?” “Eh, sì” “Bel matto che sei!”. 


Suoi contributi si trovano pressoché in tutte le riviste “militanti”, frequentate senza far caso al prestigio accademico o mondano. Diceva di aver imparato dai più vecchi, gente come Bruno Trentin, come i razzismi siano più antichi e profondi delle congiunture economiche e della competizione per le risorse fatte scarse. “Non possiamo illuderci che il razzismo risparmi i lavoratori, gli operai, i poveri. Anzi, sappiamo che i più istruiti, almeno fino a quando lo richiedono le buone maniere, si nasconderanno, fingeranno di essere universalisti, mentre disprezzano gli stranieri appena arrivati, che sono anche i più poveri, i meno istruiti: brutti, sporchi e cattivi. I meno istruiti invece si schierano esplicitamente a difesa dell’unico vantaggio che hanno: essere simili alla maggioranza di quelli nati qui”.


Non c’è suo scritto che non sia esemplificato da storie di persone e di fatti, e ricordi propri. Era stato amico di Primo Levi, avevano in comune le camminate di mezza montagna, il piacere di raccontare. “Parlavamo di chiavi a stella, di storie naturali; qualche volta del passato che ritorna, come non ha mancato di fare... Mai dei problemi personali suoi”. L’aveva intervistato, per “una rivistina della Cgil, Ex machina”, nel 1986, a ridosso del bombardamento della Libia, dopo l’attentato alla discoteca di Berlino. Levi, che sarebbe morto l’anno dopo, gli disse una cosa dalla risonanza attuale: “Gli americani hanno detto apertamente che volevano proprio uccidere lui. Gheddafi non mi piace, però non mi pare che si debbano ammazzare le persone che non ci piacciono. Eliminarlo politicamente è un conto, eliminarlo fisicamente è un altro conto”. 


Di sé, Ciafaloni, che era di una sincerità, lealtà e onestà rare, diceva: “Personalmente, non credo in Dio, ma vengo da una famiglia contadina e quindi cattolica. Mio padre e mia madre quel 18 aprile, quando avevo 11 anni, dieci di meno della maggiore età di allora, le elezioni le hanno vinte. A 64 anni di distanza, da laico e socialista, in senso lato, non li accuserei di aver tradito la patria”. Di Donald Trump aveva scritto: “Non è una novità, ma non possiamo fare a meno di una politica di difesa europea. Non possiamo andare avanti a deprecare le sparate di Trump, e continuare ad ospitare le sue basi perché non abbiamo alternativa. Svegliamoci”. Era però il primo Trump, 2017. Non è una novità, infatti.