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Piccola Posta

Quello che Netanyahu non avrebbe dovuto dire dopo la strage di Washington

Adriano Sofri

E’ stupido fare degli attentatori solo dei sobillati. Chi sceglie questa strada dovrebbe pensarci due volte. Il premier israeliano lo ha fatto, attaccando anche i governanti europei. Qualcosa vacilla

Nell’ottobre 2023, quando all’orrore dell’attacco di Hamas era seguita una risposta del governo di Netanyahu che lasciava sbigottiti per la sua portata distruttiva e interdetti quanto a una strategia, una mia amica, cui sono affezionato e di cui conosco la sincerità, ma cui da sempre rimproveravo una scolastica ortodossia di sinistra, dichiarò con piena convinzione che il governo israeliano mirava a vuotare l’intera striscia di Gaza del suo popolo. Di tutte le ingenuità e le enormità che nel corso del tempo le avevo sentito sostenere, mi parve la più smisurata, e la presi paternalisticamente in giro. Incorro spesso in una scemenza paternalistica. Mi costava troppo prendere sul serio quella idea, per la sua palese assurdità, e per una immoralità eccedente l’immaginazione, che avrebbe messo a dura prova la mia solidarietà con l’esistenza di Israele – una volta avevo scritto un pezzo cui tenevo molto, per Repubblica, sul “dovere di amare lo Stato di Israele”. Nel giro di un anno e mezzo, quell’ipotesi da incubo si è fatta via via più plausibile, fino a mutarsi in un esplicito proclama, la Riviera, che in bocca a Donald Trump pretese di mostrarsi anche spiritoso

 

                   

 

Non era il solo superamento inaudito e, letteralmente, incredibile, della misura cui nel dopoguerra della nostra parte di mondo ci eravamo assuefatti. E via via che cresceva, a dismisura appunto, la carneficina di Gaza – così da travalicare la discussione sulle responsabilità, sugli scudi umani, sul cinismo di Hamas con gli ostaggi israeliani e con gli ostaggi della propria gente – avanzava una transvalutazione della vita e della morte. Nel suo corso, ogni giudizio e prima ancora ogni sentimento nei confronti della morte inflitta e ingiusta, impallidivano fino a diventare insignificanti o addirittura offensivi al confronto con l’espressione simbolica, coniata su una condizione reale, dei “bambini di Gaza”. La notizia di una strage ucraina, anche delle peggiori, anche delle più strazianti – poco fa i 34 morti, 15 bambini, a Sumy, domenica delle Palme – faceva sbuffare di insofferenza o di sdegno, davanti alla media incomparabile dei morti ammazzati a Gaza, fra gli 80 e i 100 al giorno, anche in questi giorni, tanto più per la gerarchia dei titoli nei tg e sui quotidiani (il confronto col Sudan o col Congo è fuori categoria).

Non avveniva e non avviene solo per le notizie di guerra cosiddette (perfino la parola guerra è un abuso per le olimpiadi della ferocia dei nostri giorni) ma anche per morti e malanni personali e naturali, di poveri cristi, di persone vicine, le nostre liste d’attesa e gli ospedali bombardati a Gaza, per non dire dei potenti – la prostata di Biden, una reazione sola, l’impazienza, un commento solo, “vergogna!”. Così, fino ai due impiegati dell’ambasciata di Israele a Washington, giovani e belli e promessi sposi. Un orribile assassinio, ma quanti si saranno risparmiati il confronto coi, reali e simbolici, bambini di Gaza?

Perfino agli attentatori più esaltati e posseduti bisogna attribuire una dose di responsabilità e di libertà, una seminfermità. Elias Rodriguez forse ne ha una tutta intera. E’ stupido, o disonesto, farne solo dei sobillati. Chi sceglie questa strada dovrebbe pensarci due volte. L’ha scelta Netanyahu, attaccando addirittura i governanti europei del giorno prima. Ma no: la colpa non è del papa, non è dei capi di Stato e di governo europei, non è di Ehud Olmert, non è di David Grossman, non è dell’Unicef né dell’Onu, non è degli “ebrei buoni”. Le prime fonti americane dicono che il trentenne Rodriguez, laureato, di sinistra “leninista”, di Chicago (come il papa), “l’ho fatto per Gaza”, abbia agito da solo. C’è da meravigliarsi che abbia tardato tanto ad arrivare, lui solo, e che tardino tanto ad arrivare altri soli angosciati allo spasimo dalla strage di innocenti, e i non soli, quel jihadismo terrorista che a distanza di un anno e mezzo dall’inizio della strage di bambini di Gaza non è riapparso in forze, e dietro di lui gli Stati, arabi o no, musulmani. Se alla impudente imputazione di Netanyahu e dei suoi ministri fascisti e razzisti si volesse stare, varrebbe il famoso, vero o no, apologo di Guernica e dell’ufficiale tedesco ammirato che chiede a Picasso: “L’ha fatto lei?”, e Picasso: “No, l’avete fatto voi”.

Ieri avevo citato, come tanti, le parole di Yair Golan, politico e militare di spicco israeliano, spinte a scongiurare che si uccidano bambini per hobby. Le parole non fanno che rincararsi, infatti, e la domanda che si poneva dalla fine di quell’ottobre di due anni fa, “Fino a quando? fino a quanto?”, sembra arrivare alla risposta. Ieri David Grossman: “Credo che nei primi due-tre giorni sia stato legittimo desiderare vendetta di fronte a tanta brutalità: ma non è legittimo che dopo tanto tempo un primo ministro sia guidato ancora dalla sete di vendetta”. E, più forte che l’immagine di Golan: “Davanti a tanta sofferenza il fatto che questa crisi sia stata iniziata da Hamas il 7 ottobre è irrilevante”. E l’ex premier Ehud Olmert: “Netanyahu sta conducendo una guerra senza scopo e senza alcuna possibilità di salvare la vita degli ostaggi”.

Mi guardo dal forzare il pensiero di Giuliano Ferrara, il cui strenuo sostegno a Netanyahu, che nel suo caso coincide con una decisione “esistenziale”, come ora malamente si dice, di stare dalla parte di Israele, fra stoicismo e masochismo, non aveva vacillato. Però due giorni fa il suo articolo, al termine di una fedele ricapitolazione, aveva questa conclusione: “Ciò che era una tragica necessità quando in tutto il mondo i soloni della geopolitica consigliavano a Israele di astenersi dal combattere per la propria difesa, dopo il 7 ottobre, ora rischia di diventare una scelta, e per di più con l’apparenza, fino a prova contraria, di una scelta strategicamente cieca”. Un rischio, un’apparenza salvo smentita, la rivendicazione di una necessità tragica, tuttavia la conclusione somigliava molto a quella dell’oppositore antico Olmert: “Netanyahu sta conducendo una guerra senza scopo e senza alcuna possibilità di salvare la vita degli ostaggi”.


 

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