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PICCOLA POSTA

Mario Levi e Renzo Giua. Una grande storia di amicizia fra grandi uomini 

Adriano Sofri

Un libro ripercorre una vicenza civile e generazionale che ha per protagonisti due esuli antifascisti nella Torino degli anni '30

Una gran storia di amicizia fra uomini giovani. Così appare prima di tutto quella fra Mario Levi e Renzo Giua. Nel marzo 1934 uno ha 29 anni, l’altro 20. Mario rientra in Italia dalla Svizzera con un carico clandestino di pubblicazioni di Giustizia e Libertà destinate a Leone Ginzburg e a Vittorio Foa. Lo perquisiscono, lo fermano, lui scappa, si butta in un fiume, viene raccolto intirizzito dalle guardie di frontiera svizzere, dall’altra sponda grida: “Viva l’Italia”. A Torino Renzo fa il giro delle case degli amici coinvolti nella cospirazione, poi prende i suoi sci e va a passare la frontiera con la Francia a 3.400 metri di quota. Cominciano così le loro vite di esuli antifascisti. Renzo, il più impetuoso e scanzonato, non tornerà più perché muore nel 1938, a 24 anni, sul fronte della guerra di Spagna, dopo un’ennesima ferita. Mario è più riflessivo, è un acuto economista, parteciperà alla resistenza francese, morirà nel 1973, in Corsica, dopo un bagno di mare. Il racconto delle loro vite parallele è pieno di altri dettagli romanzeschi: sono legate anche le loro famiglie, arrivate a Torino nei fatali anni 1919 e 1920. Il padre di Mario è il professor Giuseppe Levi, istologo di fama internazionale, quello che urla ai figli di non fare sbrodeghezzi, nel “Lessico famigliare”. Il padre di Renzo è il professor Michele Giua, chimico illustre e socialista, vendicativamente imprigionato. Dunque una sorella minore di Mario è Natalia, che nel 1938 sposerà Leone Ginzburg, e una sorella minore di Renzo è Lisa, che sarà compagna e poi moglie di Vittorio Foa, e madre di due figlie, Anna e Bettina, e di un figlio, Renzo. Lisa ebbe quel fratello a esempio nella sua giovanissima partecipazione alla Resistenza, e lo ricorderà nella bella biografia dettata nel 2004, “È andata così”. Leggere i nomi dei protagonisti della storia dell’antifascismo torinese negli anni ‘30, e i loro rapporti reciproci, fa pensare a un mondo piccolo e ravvicinato, e anche privilegiato – una specie di Ztl torinese, con la differenza della galera, della discriminazione e anche della vita. 


A questa vicenda civile e generazionale Cesare Panizza (Alessandria 1975) ha dedicato un vasto studio, “Amicizia e politica. Mario Levi e Renzo Giua nella cospirazione antifascista”, Pacini ed., 347 pp. Ricordando come tra i borghesi italiani dei primi anni ’30 prevalesse la sensazione che “non c’era niente da fare”, che suscitava in giovani impazienti una vera rivolta. Nel 1936, in una lettera ad Andrea Caffi, Mario Levi ricostruì così la sua personale rottura, consumata all’improvviso in una villeggiatura versiliese del 1931: “…guardavo la folla delle belle signore e dei bambini nella spiaggia. E mi sentii preso da un tale odio per quella gente che pensavo alla gioia di prenderli d’infilata con una mitragliatrice”. Parole riparate dalla circostanza privatissima, e tuttavia “documento impressionante di quei furori che non furono solo di Levi”, contro l’indifferenza, alla quale la cospirazione, ingenua come fu, ed esposta alle più luride spie, valse da unico antidoto. 


Nell’esilio francese, i due amici matureranno, come molti altri, un dissenso da Giustizia e Libertà, sia per una diffidenza verso la sopravvalutazione di Carlo Rosselli del peso politico di GL, sia per impazienze personali – e più tardi anche per l’intransigenza nei confronti del comunismo staliniano. Una qualità intellettuale dell’esilio anteposta a quella politica del fuoruscitismo. Sono più legati a figure influenti per il loro passato e per il rilievo intellettuale, come Caffi. “Andrea è una persona straordinaria – scrive Levi ai suoi – Quest’inverno mangiava una volta al giorno e certi giorni neanche. Credo di avervi già scritto che è stato messo in prigione prima dallo czar poi dai bolscevichi”. Con Caffi e Nicola Chiaromonte, formano un cenacolo che chiamano ironicamente la “gang”. Si propongono di inverare il principio di “socievolezza”, di spontaneità e gratuità, teorizzata da Caffi. Una prefigurazione della società libera, un abbattimento della separazione fra pubblico e privato, che in quella Parigi della rive gauche, tra stanzucce d’albergo e café, ricorda a Panizza i giovani contestatori degli anni Sessanta. Là Renzo Giua incontra Alberto e Ursula Hirschmann, che avrebbe scritto un mirabile ricordo di lui per “Tempo presente”, nel 1963. (Di tutto questo contesto storico e culturale è prezioso custode il forlivese gruppo de “Una città” e la Fondazione Alfred Lewin). 


Nel 1936 Renzo scrive a sua madre – suo padre è stato condannato a 15 anni, e rifiuterà sempre di chiedere qualsiasi clemenza. “È chiaro che a papà hanno riversato gli anni riservati a me fin dal 1932. Questa politica degli ostaggi inaugurata brillantemente dal Bolscevismo, continuata dall’Hitlerismo, ha emigrato ancora. È l’assenza di ogni legge… In queste condizioni, se si potesse io tratterei volentieri per la resa dell’ostaggio…”. Gli altri sentono che scalpita. Quanto alle polizie fasciste, continuano a segnalare il pericolo che, esasperato dalla galera paterna, venga ad attentare alla vita del Duce. Il 25 luglio del 1936 lui invece parte tra i primi per la Spagna, e in Catalogna. Da quel ricordo di Ursula Hirschmann. “Era un bel ragazzo, con occhi di un grigio acciaio, sopracciglia corte e denti lucenti. Rideva di tutto: delle mie domande, della mia pronuncia, della mia timidezza. Rideva senza pensarci, per puro divertimento, e dopo un po’ ridevo anch’io, senza perché... Tutto in lui è stato gratuito: la sua vita, la sua azione, la sua morte. Aveva combattuto per un po’ in Spagna contro falangisti e fascisti con l’allegria di un eroe ariostesco; e certamente aveva continuato lì a fare le più irriverenti risate sugli antifascisti importanti che restavano a Parigi, così come prima, a Parigi, aveva preso in giro quegli antifascisti solenni che dal carcere scrivevano lettere vibranti alle mogli, con preghiera di numerarle, per la posterità. Poi si era innalzato nel cielo, cavalcando una nuvola di un rosa un po’ troppo vistoso, ridendo ormai per sempre, il cuore dilaniato da una bomba falangista”.
 

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