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Perché fra i delitti e le pene non c'è alcun ragionevole rapporto

Adriano Sofri

“Pagherò quello che è dovuto”, come ha detto l'assassino di Giulia Cecchettin è un ragionamento da catalogo tariffario. E si può anche essere in credito con la giustizia

Fra i delitti e le pene non c’è alcun ragionevole rapporto. Sono due ambiti incompatibili: se non due tipi di pena, spesso due tipi di delitto. Siccome niente piace e lusinga più dell’autoinganno, si pretende di adeguare (la bilancia della giustizia) delitti e pene alla stregua di un libro mastro: il debito, il conto saldato con la giustizia, gli sconti…

Ora, per la prima volta, leggendo i titoli con le parole attribuite allo scellerato che ha ucciso la giovane Giulia, “Pagherò quello che è dovuto…”, ci ho sentito qualcosa di diverso dal semplice adeguamento al gergo di mercato, una specie di dichiarazione da consumatore. Un ragionamento da catalogo tariffario, un perfezionamento della mercificazione: uccidere una ragazza, tot anni; con l’aggravante della premeditazione e di altre efferatezze, tot anni; con l’attenuante della diminuita capacità di intendere e di volere tot anni… Ha 22 anni, la durata media della vita di un maschio (più breve di quella delle donne, ironia delle cose) è fra gli 80 e gli 81 anni, “ho un bel gruzzolo, posso investirne una quota per comprarmi e pagarmi l’ammazzamento ‘della mia ex’, il mio ammazzamento della ex”. A ognuno la sua, a prezzi di saldo. Questo per dire come mi ha fatto schifo quel titolo: “Pagherò quello che è dovuto”.

Però c’è anche chi è in credito con la giustizia. Il credito è ancora più impagabile del debito. Anche qui sono appena stato colpito da una curva inaspettata del linguaggio. Riguarda Beniamino Zuncheddu, l’uomo – il “servo pastore”, una specie di apprendista uomo, nonostante Gavino Ledda e Fabrizio De André – che “si è fatto” 32 anni di galera da incolpevole, finché lui stesso, il bravo avvocato Mauro Trogu, delle brave radicali come Irene Testa, dei bravi concittadini di Burcei, lo hanno cortesemente messo fuori come si sfratta un inquilino moroso, prima di certificare definitivamente che aveva occupato abusivamente il suo posto in cella. Fra le autorità che si sono prese la briga di accorgersi della incolpevolezza di Zuncheddu c’è una magistrata, Francesca Nanni, oggi a capo della Procura generale milanese, quattro anni fa, dalla Procura di Cagliari, fautrice della revisione del processo a Zuncheddu. Mattia Feltri ha scritto sulla Stampa come la signora Nanni avesse voluto raccontargli che si era imbattuta nella vicissitudine di Zuncheddu, e “ne sospettava l’innocenza”. Credo che Mattia Feltri abbia gioito della singolarità della frase. La creazione, dalla mela in poi, è dominata dal sospetto (a pensar male…), e “le scuole” del moderno secondo Ricoeur, Marx Nietzsche Freud, e ora figurarsi le macchiette QAnon e Musk e Davigo. Sospettare, nei vocabolari e nell’uso, è un’attività transitiva che non prevede se non un complemento oggetto losco o spregevole. Che una procuratrice, una “magistrata dell’accusa” nel linguaggio corrente, si appassioni gratuitamente al caso di un ergastolano incolpevole perché è arrivata a “sospettarne l’innocenza”, è una innovazione linguistica, dunque morale, e metterei la mano sul fuoco che ecciterebbe l’invidia di Franz Kafka, il quale ci era arrivato vicino: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”. Qualcuna sospettò di innocenza Beniamino Z., sicché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu scarcerato.

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