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Tra aquile arpie e formiche di fuoco, certi luoghi sono fatti per rimanere in disordine. Come l'Amazzonia

Adriano Sofri

Acque dolci, notti stellate, clorofilla. Nel suo libro Emanuela Evangelista racconta la sua vita tra le palafitte della foresta amazzonica 

Grazie a una sarabanda libresca milanese, faccio conoscenza con una signora, si chiama Emanuela Evangelista, aspetto giovane, snella, eleganza sobria, loquela calma. A Daria, che me lo chiede, dico: “Un tipo interessante”. “Non sai quanto”, dice lei, e ha l’aria di compatirmi. Più tardi, piccato, scorro il libro di Emanuela E., e poi lo leggo fino in fondo. Torna in Italia sì e no una volta all’anno. Abita da 24 anni su una palafitta a Xixuaù, nello stato brasiliano di Roraima, a 400 km di fiume da Manaus. All’equatore. 15 famiglie: “Praticamente, siamo soli al mondo”. Ci si arriva in barca. Sul suo affluente non ci sono a monte altre palafitte, dunque l’acqua è potabile. Fra lei e il caimano nero di sotto ci sono orari da rispettare. Ci sono gli spiriti, Curupira, per esempio, basso, coi piedi girati al contrario per ingannarti sulla direzione, protegge alberi e animali e castiga i cacciatori avidi. Anche il boa constrictor può fissare il cacciatore fino a farlo girare in tondo e perdere la strada. Ma se lo sai ti spogli e ti rimetti addosso i vestiti al contrario, e lo freghi. Ci sono i delfini, in quel labirinto di acque dolci, e possono trasformarsi in persone, ma tengono sempre il cappello per non mostrare lo sfiatatoio. 


Non c’è modo di conservare il cibo, e bisogna procurarselo ogni giorno di nuovo – l’orto dà solo manioca, qualche tubero, frutti e spezie per la selvaggina. I pesci sono buoni, i piranha specialmente. Gli indigeni escludono di prendere decisioni a maggioranza, che scontenterebbero la minoranza: per arrivare all’unanimità, parlano, per giorni e giorni, all’infinito. Si riuniscono, anche i bambini e i cani, un casino, ma nessuno perde il filo. Qui, al centro, la deforestazione massiccia non è ancora un problema come ai bordi. Il bracconaggio sì. I trafficanti di tartarughe sono collusi col narcotraffico. “Brutta gente – dice l’indigeno waimiri – e mangiano anche le scimmie. Io no”. Mente, le mangia. “Perché no?” – chiede Emanuela che vuole prenderlo in castagna. “Perché le scimmie un tempo erano persone, non lo sapevi?”, replica quel Darwin vendicato. Lei impara una quantità di cose, ma l’orientamento no. Le storie sul ritrovare la via spezzando rametti o lasciando tacche di machete sui tronchi sono solo balle. Nel fitto della foresta dopo 20 metri non vedi più nessun segno, e dopo una sola settimana la foresta è di nuovo vergine. Poi è arrivato il Gps, ma non regge il confronto con il senso di orientamento di chi in foresta è nato e cresciuto. 


L’estrazione di metalli e minerali è micidiale per l’ecosistema amazzonico. Mercurio e cianuro inquinano i fiumi e la catena alimentare. Ai nostri giorni cresce l’allarme per gli yanomami – “un genocidio”. L’oro è una maledizione, la soia è una maledizione, il caucciù fu una benedizione per Henry Ford, prima di essere soppiantato dalle piantagioni asiatiche. Emanuela dice di aver imparato che voler portare ordine dove c’è entropia è una pretesa arrogante che non sempre funziona. Certi luoghi sono fatti per rimanere in disordine. E che i popoli della foresta amazzonica non hanno posto per la pigrizia, ma hanno sacro il riposo. “Per un nativo deve essere possibile riposare quando è stanco, non quando un orologio attesta che ne ha finalmente il diritto”. Fra gli animali che Emanuela ha studiato c’è la lontra gigante amazzonica: un maschio adulto può raggiungere i 180 cm. È il super predatore del fiume. Il super predatore della foresta è il giaguaro, il suo morso è più forte di quello di tigri e leoni. Ne incontri uno e per i giorni a venire senti che c’è. Ti succede anche di vedere un anaconda gonfio di qualcosa di indigesto, che si dibatte, finché spalanca la bocca e tira fuori prima un arto poi la coda poi il resto del corpo intero di un caimano. A quel punto, sollevato, l’anaconda si drizza, spalanca le fauci e sfida gli animali umani che sono stati a guardare la sua indigestione: “Avvicinatevi ora se ne avete il coraggio”. Quanto ai cieli il super predatore è l’aquila arpia. Domina lo spazio, bellissima, regale. Sotto di lei una banda di scimmie cappuccino si muove chiassosa e ignara del pericolo. L’aquila accorcia la distanza, calcola la picchiata, e si avventa sul gruppo. Ci sono urla di terrore, un fuggi fuggi generale – e un nulla di fatto: l’arpia ha mancato il bersaglio. 


Emanuela studiava biologia a Milano e cominciò con una piccola ong per scrivere la tesi sui leoni in Tanzania. Un anno dopo le offrirono di aiutare alla costruzione di una scuola in Amazzonia. Decise che era il suo posto: acque dolci, notti stellate e clorofilla. Sostituì il leone con la lontra gigante. Per i primi 13 anni fece la pendolare. Quando partiva da là nessuno credeva che sarebbe tornata. Lei piangeva, loro la abbracciavano per l’ultima volta. Poi diventò normale, smisero di piangere. Oggi le rare volte che viene in Europa, quasi non la salutano più. Qualcuno viene a chiederle di portare qualcosa, specialmente i bambini. Ha fondato lei una ong. Ha portato con sé in Italia alcuni dei rivieraschi, rinnovando le scoperte dello spaesamento. Uno di loro sulle Dolomiti chiese di poter toccare la neve. un minuto dopo ci si rotolava dentro come un bambino. Capitano di fiume, ammise che anche il mare è imponente. A casa, non volevano persuadersi del racconto di lei sull’acqua salata. “Se fosse salata i pesci morirebbero”. Il capitano intinse la mano, assaggiò e decretò: “Lo racconterò alla mia gente: l’acqua del mare è salata”. 

Secondo gli esperti, all’Amazzonia restano 15 anni di tempo, forse 30. Non occorrerà raderla al suolo, basterà tagliarne il 20 per cento. La foresta vive di un equilibrio di piogge e umidità. Si tramuterà in una specie di savana, povera di animali e vegetali, pronta a incendiarsi. Sto raccogliendo aneddoti e trascurando le parti più istruttive e documentate del libro. È una debolezza comprensibile quando si è incontrata una signora a Milano. Una volta una scimmia urlatrice si infilò sotto la sua zanzariera. Lei rimase immobile. L’altra le si accovacciò accanto. Restarono a studiarsi. Si girava e l’altra si girava. Le prese la mano e se la mise sulla pancia. Emanuela era lusingata. Prima dell’alba le scimmie urlatrici cominciarono il loro coro potente. Le due si alzarono, tranquille, confidenti. Ma lei fece uno sbaglio, la tirò a sé per un braccio. La scimmia l’aggredì ululando paurosamente, la morse sul fianco, saltò da un mobile all’altro e poi scomparve nella foresta. Non si videro più. Ora nel Brasile di Lula tocca di nuovo a Marina Silva difendere la foresta. Lei è cresciuta al seguito di Chico Mendes fino al suo assassinio nel 1988, ha imparato a leggere a 17 anni, si è laureata due volte, è stata più volte ministro dell’ambiente. 


Emanuela, col suo compagno Francisco, ha da una decina di anni una nuova palafitta, una lotta indefessa con le formiche di fuoco, e un immutato incanto all’entrata nella foresta. Di tutti i luoghi della terra l’Amazzonia, dice, è il più femminile. Il suo libro si intitola “Amazzonia, una vita nel cuore della foresta”, Laterza. Leggetelo, e ogni volta che vi capiti di incontrare una signora snella, tranquilla, sobriamente elegante, e vi viene voglia di esibirvi con lei, mostrarle che sapete toccarvi il polso col pollice, o un gioco di prestigio con tre arance, tenetevi, non si sa mai. (Però, imprevedibilmente, a proposito di un naufragio nel gran fiume, Emanuela racconta che lei non sa nuotare. Io, modestamente, so nuotare).
 

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