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La filosofia di Montale per un genere umano demoralizzato

Adriano Sofri

Due versi del 1923 sono serviti per allontanarsi da un bagaglio di convinzioni che avevano la pretesa di squadrare la realtà. Oggi ci tornano utili, al momento di uscire da una pandemia

Non sono molti i lettori abituali di poesia, un po’ più numerose le lettrici. Tuttavia, quando si cercano parole che dicano le proprie, o che facciano loro da nobile epigrafe, si ricorre alla poesia. Che oltretutto è meno impegnativa della prosa, si lascia piegare a sensi privati senza perdere la propria indipendenza. Ieri sul Corriere Paolo Di Stefano faceva fuori la sicumera imprudente di tante parole contemporanee che squadrano da ogni lato la realtà informe, tornando ai due versi finali di Eugenio Montale del 1923: “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Al tempo, il lungo tempo, di prendere commiato da un bagaglio di convinzioni che volevano squadrare da ogni lato la realtà per cambiarla, impazienti di interpretarla, feci ricorso a quei due versi come al programma di una generazione che aveva sperimentato l’urto con la resistenza del mondo alle sue pretese. Sue, e di una lunghissima storia del progresso. Mi sembrò che ne venisse una filosofia morale preziosa per un genere umano demoralizzato, un genere umano che imparasse a sue spese a tagliarsi le unghie. A una piccolissima condizione, che faceva della prima persona plurale impiegata da Montale, e lì stava per la sua singolare prima persona – “Non chiederci… l’animo nostro…” – una prima persona universale: l’aggiunta del monosillabo “più”. “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più”. Come nel momento di uscire, forse, da una pandemia.

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