(foto LaPresse)

Piccola Posta

Matteotti il riformista

Adriano Sofri

Rifuggiva dalla violenza, ma perseguiva l’azione di forza più decisa. Ritratto di un “profeta armato”

Per il suo docufilm “La dannazione della sinistra - Cronache di una scissione”, su Livorno 1921, Ezio Mauro chiedeva agli intervistati dove avrebbero preso posto al Teatro Goldoni. Vicino a Gramsci, hanno risposto, com’era prevedibile, e giusto. Claudio Martelli sarebbe stato accanto a Matteotti: altrettanto giusto. Non so se Martelli ricordasse che Giacomo Matteotti era venuto a Livorno con l’incarico di tenere un discorso per i suoi, i riformisti di Turati, quelli che i 21 punti del Comintern ordinavano di espellere, ma restò al Congresso un solo giorno. Al Castello di Ferrara un mese prima c’era stato uno scontro fra socialisti e fascisti, erano morti 3 fascisti e un socialista (altri due, feriti, sarebbero morti più tardi). Il funerale dei fascisti aveva raccolto un’enorme partecipazione, e nei giorni seguenti le squadre avevano spadroneggiato. Ora sindaco socialista e segretario della Camera del Lavoro sono arrestati, e Matteotti corre a Ferrara, prendendone il posto al sindacato. Fin dall’arrivo subisce intimidazioni e aggressioni, che si ripeteranno nei giorni successivi. Da lì, spedisce un telegramma al Congresso, avvertendo delle minacce che incombono sull’unità dei lavoratori. Il 19 un fornaio socialista viene ferito – ne morirà – e Matteotti che lo visita in ospedale è ancora circondato e insultato. 

 

Dunque agli atti del Congresso livornese resta solo una sua interruzione dalla platea. L’episodio, riletto, ha un più forte rilievo. Nelle ricostruzioni, qualcuno, e lo stesso Mauro, ha insistito sulla sconcertante disattenzione dei congressisti alla minaccia squadrista, che fra meno di due anni avrebbe portato alla marcia su Roma e al governo di Mussolini. Altri hanno obiettato che a quel punto, poco oltre metà gennaio del ’21, le violenze fasciste non erano ancora dilagate e rientravano per così dire nell’ordinaria amministrazione di quel tempo così straordinario. Vera in parte – il gennaio del Congresso sta al discrimine fra il biennio dell’onda rossa e quello della reazione nera – l’obiezione non inficia lo stupore per la miopia dei congressisti. I quali, con poche eccezioni, sono concentrati sui rapporti reciproci delle correnti, e sulla risposta alla decisione della III Internazionale che impone il cambiamento del nome di socialista in quello di comunista, e l’espulsione dei riformisti. L’Esecutivo del Comintern ha preso quella decisione, sostenuta dai componenti italiani comunisti, guardando ancora a un movimento rivoluzionario montante in Italia, la cui battuta d’arresto viene addebitata soltanto alla complicità o all’inerzia delle direzioni del sindacato e del partito: dunque bisogna amputare l’arto riformista incurabile, minoritario fra gli iscritti socialisti ma egemone nel sindacato e nel gruppo parlamentare – e riprendere la corsa. Il risultato del Congresso ecciterà Bordiga e i suoi, ma deluderà lo stesso Comintern, che ha visto la maggioranza massimalista tenersi i riformisti, e i comunisti scindersi, autoespellersi, in minoranza. Di lì a poco la constatazione dei rapporti di forza reali indurrà il Comintern, “contrordine compagni”, a imporre al neonato Partito comunista di riallacciare i legami con i socialisti. Della scissione, dunque, si dovette almeno pensare che fosse avvenuta tardi, in un ritardo fatale; e così la giudicò anche Gramsci. In ritardo non solo sull’onda alta del movimento operaio e contadino (già il settembre 1920 dell’occupazione delle fabbriche arrivò tardi e condannato agli occhi degli ordinovisti che avevano promosso il grande movimento torinese dell’aprile) ma anche sulla reazione squadrista di fascisti e nazionalisti. Del resto, la sensazione della reazione che incombe è al Congresso un motivo forte, e non solo strumentalmente retorico.

 

Giacomo Matteotti ne è il più concretamente persuaso. Ha una formidabile esperienza nelle amministrazioni comunali e nelle leghe del Polesine, un territorio strategico per la lotta di classe, e ha una personale esperienza delle minacce e ben presto delle violenze squadriste. Il suo assassinio nel giugno del ’24 fu infatti preceduto e preparato da una serie inaudita di aggressioni, riuscite a volte, altre tentate, fino a costringerlo a una vita braccata. E’ del marzo 1921 l’episodio più grave, a Castelguglielmo (Rovigo): sequestrato nella sede degli agrari, caricato su un camion, torturato e seviziato, e abbandonato in aperta campagna. E anche quando, nell’ottobre del 1921, si svolge a Milano il nuovo congresso nazionale socialista, si ripete la cecità di Livorno sull’offensiva fascista, e Matteotti interviene a nome di tutti i militanti cui le violenze squadriste e il disgusto per le dispute di corrente hanno impedito di essere presenti. “E’ indispensabile uscire dall’equivoco inerte del massimalismo e concentrare le energie sul problema vitale di come fronteggiare il fascismo senza precludersi l’uso di tutti i mezzi disponibili, da quelli legalitari e parlamentari sino a quelli volti a rispondere con la violenza alla violenza e alla illegalità.”

 

 Matteotti è un riformista che si rivendica tale – in quella temperie l’aggettivo bastava a squalificare – e che detesta il culto della violenza verbale e a volte materiale cui si abbandonano in tanti dirigenti socialisti. Ma è, al contrario del luogo comune che associa riformismo a passività e debolezza, fautore dell’azione di forza più decisa quando senta che è in gioco la sorte della causa in cui crede. Era successo così con la guerra di Libia nel 1911 (la prima pietra d’inciampo dell’internazionalismo e dell’anticolonialismo socialista) e con la guerra del ’14-’15. Di fronte alla quale, lungi dall’attenersi al “né aderire né sabotare”, caldeggiò con veemenza dal partito una insurrezione popolare contro l’ingresso dell’Italia in guerra – attirandosi anche sospetti di “austriacantismo”, una condanna per disfattismo, un confino militare in Sicilia. Il suo motto, “sono rivoluzionario perché sono riformista”, si misurava allora con la convinzione che la guerra non fosse che un’enorme strage, che avrebbe favorito gli appetiti imperialisti di tutte le parti e segnato un regresso gravissimo dei diritti e delle conquiste sociali dei lavoratori. Piero Gobetti, nel numero di Rivoluzione liberale dedicato all’assassinio, lo avrebbe definito così: “Egli fu il solo socialista italiano (preceduto da Gaetano Salvemini) per il quale il riformismo non fosse sinonimo di opportunismo”. E’ questa indole da “profeta armato”, confermata fino alla morte nel modo di fronteggiare la violenza fascista, a fare di Matteotti un riformista speciale, pronto anche a dissentire apertamente da un maestro come Turati. Questa attitudine contribuì a rendere Matteotti specialmente caro a un intellettuale militante rigoroso come Sebastiano Timpanaro, ed è grazie a lui che anch’io passai dalla devozione al Matteotti parlamentare intrepido contro Mussolini e la sua banda, alla conoscenza dell’azione politica e della profondità culturale. L’unilateralità dell’attenzione a Matteotti è stata di grandissima parte dell’opinione di sinistra italiana. Devozione all’audacia e al sacrificio consapevole – concluso il suo discorso alla Camera, Matteotti disse: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparatevi a commemorarmi” – e poco più. Stefano Caretti, che ha curato i 13 volumi dell’ingente edizione delle opere, ha raccontato come gli scritti di Matteotti trovassero porte chiuse anche fra gli editori ufficialmente più affini, come un nome senza mercato. Quei volumi sono usciti grazie all’editore pisano Nistri Lischi, proseguita nell’edizione dell’università pisana. 

 

C’è un altro punto essenziale per la storia politica di quegli anni cruciali. Amadeo Bordiga, senza dubbio il primo fautore della fondazione del Partito comunista e il suo capo indiscusso almeno dal 1921 al 1923, dovette prestigio e seguito, oltre che alla forte personalità e alla tenacia spesa all’organizzazione della frazione, alla coerenza, fieramente rivendicata, della sua avversione alla guerra. Sembrò, Bordiga, opporsi al modo stesso in cui si era opposto Lenin, con l’appello a trasformare la guerra fra gli stati in guerra civile. Trovate in Bordiga pressoché le stesse parole, e tuttavia quella che Lenin vide come la grande e necessaria opportunità della rivoluzione, e fece di lui l’autore della prima rivoluzione comunista nel paese più arretrato d’Europa, fu invece per Bordiga una tempesta che travolgeva il movimento proletario e costringeva i veri rivoluzionari a custodire senza cedimenti la bandiera fino a che la tempesta non fosse passata. Nel discorso di Bordiga a Livorno si legge la rivendicazione insistita di quella intransigenza sulla guerra, ignorando la differenza fra la testimonianza e l’iniziativa: quella coerenza proverbiale gli valse un primato indiscusso. Anche su Gramsci, cui si imputava una iniziale vacillazione mussolinista sulla guerra – “Per una neutralità attiva e operante” – e che, dopo la ricaduta della mobilitazione sociale rivoluzionaria del 1920, era quasi in soggezione verso il Bordiga che aveva irriso al mito dei consigli di fabbrica perché ignorava il nodo della forza armata dello stato. Paradossalmente, il Matteotti lontano dal programma di fare della guerra l’occasione alla guerra civile, era stato fra i pochi che invocavano l’appello al popolo per fare guerra alla guerra, per agire, anche con la forza, con la violenza che giustifica la legittima difesa.

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