Alexanderplatz, Berlino (foto Ansa) 

PICCOLA POSTA

Le “Corrispondenze berlinesi” di Clemente Manenti, genio amatissimo

Adriano Sofri

E' stato scrittore, insegnante, traduttore e giornalista, vivendo a cavallo tra Italia e Germania. I suoi scritti postumi sono ora raccolti in un libro curato da Michele Battini e Alessandra Peretti

Gli scritti di Clemente Manenti (Agrigento 1941-Pisa 2018) sono ora usciti postumi in una raccolta curata da Michele Battini e Alessandra Peretti per le edizioni della pisana Biblioteca Franco Serantini, pp. 160, 16 euro. Il titolo, “Corrispondenze berlinesi”, riguarda i reportage degli anni 80 e 90, alcuni dei quali sono saggi memorabili sui figli di padri nazisti: il regista e scrittore Thomas Harlan, Rudi Dutschke. Ma il volume è ricco di una scelta commentata di appunti e note inedite dai quaderni ritrovati. Clemente era di quelle persone di genio che, amatissime e ammirate nella cerchia dei molti amici, passano pressoché sconosciute al pubblico per un loro riserbo esasperante. Ha vissuto, poveramente, fra Italia e Germania – a Berlino, a Lipsia e altrove – e molto viaggiato, poveramente, in Europa, in medio oriente, in Africa. Ha scritto reportage e saggi pubblicati soprattutto, in Italia, su Fine secolo, il settimanale di cultura che usciva col quotidiano Reporter a metà degli anni 80, poi sul Diario della settimana, la bella rivista di Enrico Deaglio. E’ stato traduttore letterario per editori diversi e insegnante di italiano ad allievi tedeschi in una scuola leggendaria a Poppi, in Toscana. Fu la sua base per gli studi su Piero della Francesca o sui castelli italiani, di cui scrisse la storia per un libro fotografico in un’edizione inglese. Ha pubblicato per Sellerio un libro bellissimo, “Il cardinale e il suo custode”, che racconta l’Ungheria del 1956 attraverso l’incontro fatale fra il primate Mindszenty e l’ufficiale italiano Antonio Pallavicini. A Pisa era stato un militante di punta, sempre con una sua renitenza critica, fra i giovani comunisti e nella politica universitaria.

 

In Germania era andato da studente, a metà degli anni 60, a preparare una tesi sulla storia del movimento operaio nel primo Dopoguerra, che non discusse mai. Dalla Germania scriveva in un suo tono poetico subito castigato dall’ironia. “Stamattina nevica e fa molto freddo. Le rondini, arrivate giusto oggi, sembrano costernate. Alle cinque e mezza hanno tenuto una grande assemblea sui fili davanti alla mia camera per decidere se restare e aspettare, o tornare più a sud. Il dibattito era vivacissimo – a parte un gruppetto di estremisti decisi a tornare in Africa”. Il suo ’68 fu berlinese. Si procurò una conoscenza e una simpatia con i movimenti di quel paese, dai due lati del confine, che durò sempre e fece di lui, oltre che un amico stretto, un alter ego di Alexander Langer, poliglotti ambedue, a lingue materne invertite, il tedesco  per Alex, l’italiano per Clemente. Scriveva, ha sempre scritto, con una grafia elegante, quasi gotica, che presupponeva una propria lentezza e rendeva superflue le correzioni: era il suo autoritratto, quella calligrafia. Era magro, e lo è stato sempre di più, fino a diventare trasparente, quando un giorno è morto in silenzio, camminando in una via di Pisa. Era stato giornalista e militante di fabbrica e di strada, come Mauro Rostagno e altre e altri, fra il ’71 e il ’73 in Sicilia. Fu suo l’appello per la vita di Aldo Moro famoso come l’appello “di Lotta Continua e dei vescovi”. Aveva preparato, senza portarli a compimento, per sobrietà propria o stupidità di committenti, lavori su argomenti disparati, a ognuno dei quali dedicava un’attenzione originale e profonda: l’Italia dell’8 settembre in un protagonista impunito del doppio gioco come il capo della polizia Carmine Senise; lo spionaggio nella Ddr e il legame insinuante fra intelligence e intellighenzia, in figure come Markus Wolf; la fin troppo tarda catastrofe sovietica e il Marx “troppo radicato nella cultura ebraica perché l’Europa possa farne a meno”. E noi, il nostro viaggio comune, la nostra diaspora. “Gli amici sono le pietre miliari (‘compagno’ è stato per noi sempre rafforzativo di amico) /…/ Con gli amici morti si comincia finalmente quella frequentazione che con gli amici vivi – proprio perché erano vivi – era stata di continuo rinviata”.
 

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