Foto LaPresse

Piccola posta

La Corte costituzionale e lo strano affare dei suoi presidenti

Adriano Sofri

Sul criterio del merito, prevale quello dell'anzianità. E mentre negli Stati Uniti chi presiede la Corte suprema gode di grande notorietà, in Italia la popolarità arriva solo a posteriori 

Ho una postilla sulla Corte costituzionale, che ha nominato qualche giorno fa il suo nuovo presidente, Mario Morelli. La nomina è avvenuta alla seconda votazione, con una maggioranza di 9 voti contro i 5 andati a un altro giudice, Giancarlo Coraggio, e 1 a Giuliano Amato. Morelli è il componente più longevo della Corte, non per età ma per durata in servizio, e lascerà in dicembre. Coraggio, oggi vicepresidente, sarà in carica fino al gennaio 2022. Benché l’elezione fosse stata accompagnata da una adeguata pubblicità e illustrata dallo stesso presidente in una vivace conferenza stampa, mi restava un’incertezza sul merito della divergenza emersa nella votazione. L’ha risolta Mauro Zampini, già segretario generale della Camera, che tiene su Radio Radicale una rubrica intitolata “Istituzioni e politica”. Zampini ha spiegato che si tratta della vecchia alternativa fra il criterio della promozione per anzianità e quello della scelta per merito. L’alternativa che stette al centro della polemica sui “professionisti dell’antimafia”, titolo che il Corriere volle dare a un intervento di Sciascia. Là erano state in gioco scelte poi rivelate fatali, il rifiuto della nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, la nomina di Paolo Borsellino a capo della Procura di Marsala. Alla Corte costituzionale sembra vigere tradizionalmente un più quieto vivere, e l’abitudine prevalente alla successione per anzianità si vale dell’argomento di una presidenza meno invadente e più collegiale che in altre istituzioni, oltre che della mitigazione di eventuali lotte di correnti: l’anzianità come saggezza e distacco, insomma. Zampini sembra ritenere che questa consuetudine burocratica implichi una reticenza opportunistica, una mancanza di coraggio, diciamo così, rispetto alla valutazione di capacità e attitudini personali. Questo dunque il punto.

 

Ci ho ripensato in questi giorni, dopo la morte di Ruth Bader Ginsburg e il tributo sentitissimo che l’ha salutata. La Corte suprema statunitense e la Corte costituzionale italiana sono diversissime, s’intende. I giudici della Corte suprema hanno una notorietà e spesso una popolarità che da noi i giudici della Consulta hanno molto raramente. C’è appena stata l’eccezione di Marta Cartabia, prima donna alla presidenza della Corte, e fra i più giovani mai nominati. Cartabia del resto si è metodicamente impegnata a una maggior apertura della Corte, ed è probabile che su quella strada si proceda. Trovo notevole che in Italia, mentre l’attività della Corte e la personalità delle sue e dei suoi componenti sono restate per lo più appartate, sia spesso successo che notorietà e popolarità siano arrivate a posteriori. Presiedere la Consulta non faceva notizia, ma una volta che si fosse diventati “ex presidenti della Corte costituzionale” si entrava nel cono di luce: strano affare, degno di riflessione.