Belgio, ripulita statua di re Leopoldo II vandalizzata durante manifestazioni (LaPresse)

A 60 anni dall'indipendenza il Belgio chiede scusa al Congo. E forse è troppo tardi

Adriano Sofri

La visita di Baldovino, il discorso di Lumumba del 30 giugno 1960 e i “profondi rimpianti” di re Filippo

C’è una scena al centro della storia, così memorabile da tener testa alle più alte creazioni dei grandi poeti tragici. Era il 30 giugno 1960, esattamente 60 anni fa, ieri. Al Palazzo delle Nazioni di Léopoldville si celebrava il trapasso dal Belgio al Congo indipendente, dopo 52 anni di amministrazione coloniale belga, e a 75 anni dall’assegnazione del Congo al patrimonio privato di Leopoldo II. Il re Baldovino (1930-1993) era venuto a presenziare. Aveva già visitato il Congo cinque anni prima, riscuotendo accoglienze devote. Alla vigilia, Baldovino in alta uniforme e il neo-presidente congolese, Joseph Kasa-Vubu, percorrevano la città in auto scoperta salutando la folla plaudente, quando un uomo ne uscì, raggiunse l’auto, estrasse la spada che il re portava al fianco e la agitò in aria come un trofeo. “Un pazzo”, si disse.

   

La mattina della cerimonia, l’udienza era solenne: capi di stato stranieri, parlamentari belgi e congolesi. Parlò Baldovino. Era lui il pazzo. In tono condiscendente, definì l’indipendenza come il compimento dell’opera geniale di Leopoldo II, e assicurò che il Belgio avrebbe continuato ad assicurare la propria benevolenza al paese che imparava a camminare coi suoi piedi. Kasa-Vubu lesse un discorso cerimoniale preparato da un consigliere belga, e la cosa, secondo il programma, era finita. Ma c’era il primo ministro del nuovo governo congolese, Patrice Lumumba, che aveva con sé delle pagine scritte la notte prima, e durante il discorso di Kasavubu le corresse in fretta, sulle ginocchia. E le lesse. Dicevano che sarebbero stati amici, alla pari, ma era con la lotta, col sangue, le lacrime e il fuoco, che i congolesi si erano conquistati l’indipendenza da una schiavitù umiliante imposta brutalmente. Disse che era troppo presto per dimenticare le fatiche schiaccianti e i salari incapaci di sfamare, di vestirsi e avere un tetto, di tirar su i figli come creature amate. “Abbiamo conosciuto gli scherni, le ingiurie, i colpi, subiti in ogni ora del giorno e della notte, perché eravamo dei negri. Come dimenticare che a un nero si dà del Tu, perché il Voi è riservato ai soli onorevoli bianchi”.

    

Abbiamo conosciuto, diceva, la spoliazione delle nostre terre, la morte e l’esilio peggiore della morte. Lo trovate, è uno dei discorsi più celebri della storia, tanto più per il martirio che Lumumba avrebbe subìto di lì a sei mesi. Qualcuno ritenne che avesse ceduto al proprio romanticismo rivoluzionario e alla retorica, quando occorreva conciliare. Può darsi. Baldovino impallidiva, decise di interrompere il viaggio senza nemmeno andare a rendere omaggio alla statua equestre di Leopoldo. Si riuscì a stento a trattenerlo fino a cena.

   

Ieri, ai sessant’anni, il re Filippo del Belgio ha detto: “Vorrei esprimere i miei più profondi rimpianti per queste ferite del passato, il dolore è rianimato oggi dalle discriminazioni ancora presenti nelle nostre società”. Era la prima volta. Ci si chiede con amarezza e perfino con rabbia, in circostanze simili, se sia ragionevole il pensiero che “non è mai troppo tardi”. Forse lo è. Ho letto il Soir di ieri, insisteva sulle parole “storiche”.

 

 

La signora primo ministro belga (la conosciamo poco, ci siamo quasi convinti che il Belgio faccia a meno di avere un governo), Sophie Wilmès, ha commentato che “è venuta l’ora, per il Belgio, di intraprendere un percorso di verità”.

 

   

Leopoldo II, che fu il padrone del Congo per quasi un quarto di secolo, non ci andò mai. E l’attuale re Filippo, sessant’anni, non ci è mai andato. Suo padre, Alberto II, ci era andato per i 50 anni dell’indipendenza, ma non fu capace di dire una parola di scusa e rimpianto. Le scuse pronunciate ieri da Filippo erano richieste da molti, auspicate, aspettate: ma sono venute. Tardi? Meglio tardi che mai? Le statue sono lì che aspettano.

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