Karol Modzelewski in una foto di Tomasz Leśniowski, Creative Commons.

Le tante vite interrotte di Modzelewski

Adriano Sofri

Accademico, militante, prigioniero. La Polonia dei lumi e quella del popolo 

Ci sono grandi studiosi e grandi militanti, a volte qualcuno fa bene tutt’e due le cose. Karol Modzelewski, per esempio. E’ morto domenica a Varsavia, aveva 81 anni. E’ stato in carcere, tre volte, per parecchi anni, ogni volta per carcerieri diversi. Era nato a Mosca, era entrato in Polonia ragazzino, con Gomulka. Aveva un padre adottivo comunista, polacco e francese. Ha studiato e rivendicato l’Europa precristiana ed extrabizantina, la cultura delle sue tribù barbare. Era comunista anche lui, dunque offeso dalla contraffazione del comunismo che si trovava di fronte, ma non rassegnato all’idea che il comunismo non possa tradursi che in una contraffazione. Questo sarebbe stato un risultato del ’68. Così, con un altro giovane uomo formidabile, Jacek Kuron, indirizzò nel 1964 una lettera al Partito, che rispose mettendoli in galera.

    


L’anno scorso, invitato da Micromega, Modzelewski era venuto al Salone di Torino con Irena Grudzińska-Gross a parlare del loro Sessantotto e del nostro. E’ stata una fortuna averlo per amico


     

La lettera fece un suo effetto anche da noi, grazie soprattutto a Paolo Flores: ma noi avevamo un curioso complesso di superiorità verso i ribelli del centro e dell’est d’Europa. Li ammiravamo – “Noi siamo stati, diciamola, ad ascoltare l’ultimo polacco / Trasmetterci i Preludi…” – ma credevamo che di là si potesse solo rompersi la testa contro un muro d’acciaio, e che rovesciare il mondo fosse affar nostro, di qua. La carriera di Modzelewski si può raccontare così, come una serie di interruzioni politiche e carcerarie nella vita di studioso, o come una serie di interruzioni studiose e accademiche nella vita di militante e prigioniero. Nel 1968 non era un ragazzo, ma si riguadagnò la sua cella. Passarono altri anni e venne la ribellione operaia che prese, da lui, il nome di Solidarnosc. Dopo il colpo del 1981, di nuovo il carcere. Poi ebbe qualche anno di professione politica più ordinata, Jacek Kuron diventò ministro del Lavoro, distribuiva zuppe calde ai fregati del suo collega alle Finanze (disse Mauro Martini) Modzelewski fu senatore. Malgorzata Goetz, sua moglie, lo spinse a scrivere la propria biografia, accettò: “Un anno di carcere domestico”. Con un titolo memorabile: “Sfiancheremo il ronzino della storia. Confessioni di un cavaliere acciaccato” (2013). Sentiva la complicazione, e la contraddizione, d’essere insieme storico, testimone e protagonista. Disse, di sé e di Zbigniew Bujak: “Siamo pesci in una riunione di ittiologi”. Non si può essere pesce e ittiologo, almeno non nella stessa acqua. (Tantomeno pesce e pescatore). Guardava a Marc Bloch e alla sua Apologia della storia come a un ideale storico e militante. Era stato un gran combattente per la libertà, e ora gli sembrava di aver mancato, lui e i suoi, all’uguaglianza e alla fraternità. (Oggi in nome dell’uguaglianza, il nome e basta, si tagliano le unghie alla libertà, in Polonia e in Italia eccetera, e la fraternità nemmeno parlarne). Venti anni dopo Solidarnosc, evocò l’eterogenesi dei fini, nella versione locale: “Siamo noi a sparare, ma è il buon Dio che porta le pallottole”. Si chiedeva come incasellare la novità: “Non è il fascismo, non è neppure il regime di Putin in Russia, ma è già un governo che vuole che la sua polizia e in primo luogo i ‘servizi speciali’ possano agire senza più i controlli giudiziari di uno Stato di diritto. Assomiglia al potere che si è instaurato in Ungheria con Orbán, e del resto il presidente di Diritto e giustizia Jaroslaw Kaczynski lo aveva dichiarato: ‘Spero che avremo Budapest a Varsavia’”. In Polonia si era vista prima cha da noi la lacerazione fra “due campi culturalmente ostili, una Polonia dei Lumi, liberale, e una Polonia del popolo”.

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