Massoud Barzani, foto LaPresse

All'ombra dell'umiliazione curda nasce il Califfato sciita dell'Iran

Adriano Sofri

L'accordo con Baghdad, il suicidio all'ingrosso del Kurdistan

Iniziato con una tregua a scadenza e con truculenti ultimatum successivi di Baghdad, l’incontro fra capi militari iracheni e curdi a Mosul si è protratto con una sovrintendenza americana e si è concluso con un accordo pressoché generale, che si misurerà ora con l’attuazione. La regione curda resta nei confini attuali, i punti più critici, come Fishkhabur, all’incrocio delle tre frontiere siriana, turca e curda, saranno affidati al controllo congiunto iracheno, curdo e americano. Qualcosa del genere (senza americani) varrebbe per Sheikhan, Mahmodiya, Sahela, Alqosh, Gwer e Khazir.

 

Dunque Barzani ha lasciato la presidenza, sia pure nella forma mitigata della rinuncia a ricandidarsi. Resto peshmerga, ha detto: in realtà tiene il Pdk e resta a capo di una “leadership politica”, ma non è il punto. Il punto è simbolico, e ha colpito tutti, benché fosse atteso. Nel discorso televisivo, fin troppo aspettato, è apparso molto mutato. Cerchiamo l’accordo secondo la Costituzione, ha detto, ma se l’Iraq continuerà a volerci cancellare troverà la guerra. Non cederemo più un metro della nostra terra. L’Iraq ha occupato Kirkuk perché un mostruoso tradimento ha pugnalato alla schiena i peshmerga fedeli, e io e Kosrat – il veterano vicepresidente e comandante di una parte delle forze del Puk – abbiamo deciso il ritiro quando è stato chiaro che avremmo esposto i peshmerga al massacro. Non ha fatto nomi, non ce n’era bisogno. Ha parlato degli alleati, quelli che per tre anni hanno trovato nei curdi chi si battesse anche per loro contro l’Isis: perché, ha chiesto, Washington si accanisce a umiliare il Kurdistan? Ci sono venuti contro con le armi americane che avrebbero dovuto servire a sconfiggere l’Isis, e gli americani erano al corrente di questo piano. Ha concluso invitando a confidare nell’indipendenza – prima o poi. Sembrava sospirare piuttosto che respirare, Barzani. Forse era l’aria che tira a Erbil, nel pieno della più grossa tempesta di sabbia. I telefonini dei radi italiani, alle prese con polvere e sabbia, sono stati subissati di foto dello spettacoloso tramonto milanese di domenica. L’occidente è rosso.

 

“Gli americani” sono un enigma, per gli americani stessi. Devono essersi accorti che il ritornello sul rischio che il conflitto fra iracheni (iraniani) e curdi nuocesse alla guerra all’Isis, ritornello ricantato dai leader europei, non è granché: finito l’Isis, si autorizzerà il mattatoio curdo? Ora ricordano che bisognerà arginare l’Iran – che intanto ha dilagato. Rimarremo, ha detto il generale Paul E. Funk, anche dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq e in Siria, per fermare le milizie iraniane. La portavoce del dipartimento di stato, imbarazzatissima dopo le imprudenze di Tillerson e gli avvisi di sfratto dei capibastone sciiti di Hashd al Shaabi, ha spiegato che “dovunque arriva l’Iran arriva la distruzione”. L’Europa non ha trovato da dire sugli aeroporti chiusi o sui 200 mila fuggiaschi o sui morti ammazzati di Khurmathu. Perfino quando sottobanco manda nuovi contingenti militari. L’Europa tiene al caldo la candidatura al Nobel per la Pace, con l’Iran.

 

E’ infatti duro mentalmente, prima che praticamente, riconoscere quello che sta succedendo, in larga parte è già successo. Il modello dei pasdaran iraniani, uno stato nello stato, si è esaltato nell’esportazione siriana, come il suo complemento libanese, Hezbollah. E’ cresciuto a dismisura anche in Iraq, dove era sorto sull’appello dell’ayatollah Sistani a far fronte all’Isis, fino a raccogliere bande di decine di migliaia, irreggimentate nelle Forze armate regolari e provate anch’esse nella palestra siriana. Ciò che ne fa, in un territorio che copre Iran, Iraq, Libano, Siria, Yemen, Bahrein, un contraltare del jihad sunnita che si era fatto stato: un Califfato sciita, se così si può dire l’imamato, in cui i caratteri statali e nazionali (persiani e arabi ecc.) sfumano a vantaggio di quelli settari.

 

Davanti al parlamento di Erbil, dove è stata ratificata la distribuzione dei poteri presidenziali fra governo, Parlamento e giudiziario, ci sono stati domenica tafferugli provocati da ultras del Pdk, seguiti da sparatorie. Gruppi armati sono entrati e hanno assediato i deputati d’opposizione del Gorran. La violenza è finita con l’intervento dei peshmerga. Due giorni fa il governo iracheno aveva ordinato la chiusura delle due principali agenzie ed emittenti curde, Rudaw e Kurdistan24. Ieri a Daquk, sud di Kirkuk, un cameraman di KurdistanTV, già maestro elementare, Arkan Sharifi, 54 anni, è stato pugnalato a morte nella sua casa, davanti alle due figlie e al figlio, da una banda (turcmeni di Hashd al Shaabi?) che ha infierito sul cadavere. A Erbil e Dohuk fanatici Pdk hanno assaltato la tv NRT, che appartiene a Shaswar Abdulwahid Kadir, un facoltoso curdo entrato in politica da indipendente, “Nuova Generazione”.

 

Ci si suicida al dettaglio per amore, in questo Kurdistan suicida all’ingrosso per squallore. Mi raccontano di un venticinquenne che si è sparato. “La moglie lo aveva lasciato”. Almeno non ha ucciso lei. “Lei è in Svezia”. A Kirkuk gli accordi hanno riammesso 270 membri della polizia curda. Nei giorni scorsi si sono moltiplicati i rastrellamenti di Hashd al Shaabi contro giovani accusati di progettare una rivolta. Misure “anagrafiche” sono in corso: il richiamo degli “arabi dei 10.000” (34 mila dollari, al cambio di allora) mandati da Saddam ad arabizzare la città, dalla quale sono fuggite ora a migliaia le famiglie curde. A Tuz Khurmathu, dove gli Hashd al Shaabi hanno compiuto le gesta più efferate, uccisioni di civili e corpi sfregiati, stupri, case fatte esplodere o saccheggiate, l’accordo stabilirebbe il controllo congiunto di iracheni, curdi e coalizione. Viaggio sulle strade ancora aperte. Gran stagione per le mele granate curde: tutte queste magnifiche mele granate invendute.

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