"La tempesta" di Giorgione

Guardare la tempesta ricordando quel grand'uomo del “Popolo”

Adriano Sofri
Marco Teglia somiglia al suo Popolo? Non tanto: ha un aspetto da Mangiafuoco che la sa lunga. Però è mimetico, e sa mettersi nei panni di un filosofo di campagna.

Ieri c’è stata una tempesta sopra la mia casa. Ha abbattuto arbusti, piegato alberi, strappato fiori, una cascata d’acqua, tuoni e lampi hanno fatto saltare la luce e tremare i muri e spaventare Brina e Brillo, che non hanno paura di niente. Con la tempesta è un po’ come con i naufragi. Hans Blumenberg, riprendendo la metafora di Lucrezio, intitolò un suo gran libro “Naufragio con spettatore”. Se ne accorgono ora i soccorritori del Mediterraneo, e tutti noi che guardiamo tre o quattro volte al giorno il nostro prossimo che naufraga e annega, e ci commuoviamo un po’ per lui e ci rallegriamo molto per noi. La casa in cui abito non è al mare, è una vecchia casa colonica con una loggia, e quando fischia il vento e la bufera infuria mi copro, mi metto seduto al riparo e me ne sto a guardare la furia degli elementi. Anche ieri, e mi sono ricordato di quando ci sedevamo insieme, io e Marco Teglia, a guardare il temporale e stare zitti, coi cani suoi e miei accucciati accanto senza litigi.

 

Marco è nato a Lucca nel 1949 e ha abitato per più di trent’anni nella stessa casa, anzi fu grazie a lui e a suo fratello che vi fui accolto con Randi quando Lotta Continua finì e, spiantati, ci rifacemmo una vita. Marco, che era anche buon suonatore di piano e di chitarre, liuti e mandolini, tre anni fa pubblicò un libro intitolato “Il Popolo va agli Uffizi”, e poi un seguito, “Il Popolo va a Viareggio”. “Nacque Guerrino Anchioni, ma la mamma non ebbe latte per sfamarlo, lo portava, dunque, da tutte le conoscenti di recente parto. Guerrino succhiò il latte di cento donne del popolo, ebbe cento fratelli, divenne il figlio del popolo e poi il ‘Popolo’, come tutti da allora lo chiamarono”. Era il Millenovecentoventotto, nella campagna della Lucchesia, e il Popolo si fa la sua strada, venti chilometri ad andare e venti a tornare, a vendere braccia e vanga, e intanto recita a memoria i versi della Gerusalemme e di Dante e dell’Orlando. Finché decide di prendere il treno e andare agli Uffizi a veder Giotto, L’Angelico e Leonardo. Il Popolo è un gran personaggio, che fa ridere e intenerisce. Anche Marco Teglia. Magari l’avete conosciuto, per qualcuna delle serate che faceva nei locali e i teatri e le case del popolo e degli amici raccontando le sue storie e cantando le sue canzoni, metà sentimentali da far quasi piangere, metà comiche da far ridere con le lacrime agli occhi.

 

Insomma, il Popolo viene a Firenze. Sale sul treno come un soldato che va alla guerra. Al Duomo non c’è un omino che rovescia manciate di granturco ai piccioni? “O che li mangiate?”. “Mangiate cosa?”. “Codesti piccioni”. “O che date i numeri?”, risponde quello inorridito. “Allora che li governate a fare?”. “Rallegrano la città con i loro voli”. Un piccione gli sale sul cappello, gliela fa sulla giacca. “Sì, rallegrano la città e concimano la vostra bella giubba”, ride il Popolo, pensando che quello è più bischero di lui. In piazza della Signoria si indigna per la Giuditta che ha tagliato la testa di Oloferne, e gli hanno fatto pure un monumento; poi agli Uffizi passa e ripassa davanti alla Madonna di Giotto, con l’occhio intenditore, fissa la vergine al centro, e sembra guardarlo, si sposta di lato, e continua a fissarlo. “Questa move gli occhi!”. Incontra uno, ci parla un po’, quello lo trova buffo. “Anche voi siete buffo, parete un prete”. “Sono un prete!”. I preti di città sono strani. Anche al paese c’è gente strana, ma si conosce. Ferragalline, il miglior amico del Popolo, fa il fabbro, si fa pagare in uova e castagne. Un vizio ce l’ha, di rubacchiare. Quello che gli manca per il lavoro, lo prende dove lo trova.

 

Il Popolo gli chiede una lastra di marmo per il lavandino, la sua gli s’è rotta. Ferragalline gliela procura, e va a montargliela, quando il Popolo è a vangare. Raccomanda alla sorella del Popolo di non toccarlo finché la calce non avrà tirato. Il Popolo torna, gli pare che il marmo sia bello lucido, e anche robusto. “Già. Robusto!”, fa lei con l’aria ironica. “Perché, non ti piace?”. “A te ti piace?”. “A me sì, e poi il marmo è sempre marmo”. “Allora vieni a vedere!”, e s’infila sotto la lastra cementata, e gli mostra la scritta: “Qui giace colpito da fiero morbo…”. Il Popolo pensa che dritti si ha un’aria di prosopopea, e distesi non si vale nulla, come essere vivi o essere morti. Poi pensa che è vero anche il contrario, per uno sdraiato quello ritto è disteso, e forse per uno morto il vivo è il vero defunto e viceversa. Cerca di sbrogliare i pensieri, ma intorno le cicale fanno sarabanda, riempiono tutto, non lasciano l’intimità. “Le cicale rompono i coglioni!”, sentenzia il Popolo a voce alta, le cicale si zittiscono. C’è una prefazione di Adolfo Natalini, che passava parecchie sere a inseguire Teglia nelle osterie di qua e di là, con Roberto Barni e Staino e gli altri che vivon d’arte e il ragazzo Francesco. Marco Teglia somiglia al suo Popolo? Non tanto: ha un aspetto da Mangiafuoco che la sa lunga, è musicista e antiquario e figlio d’arte, perché suo padre Remo era medico e scrittore di libri pubblicati nei “Gettoni” Einaudi di Vittorini. Però è mimetico, e sa mettersi nei panni di un filosofo di campagna. Le bufere vanno guardate in silenzio, con una donna, o con un amico. Marco Teglia ora è morto, la tempesta di ieri era formidabile e l’ho guardata da solo.

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