CICORIA

Stefano Di Michele

Dopo quella famosa rutelliana, roba di dieci anni fa (“Io ho tirato la carretta e ho mangiato pane e cicoria”), adesso è il turno della cicoria renziana – Matteo che, ruminando l’erbacea, l’antico maestro Francesco ha superato in gloria e consenso.

    CICORIA. Dopo quella famosa rutelliana, roba di dieci anni fa (“Io ho tirato la carretta e ho mangiato pane e cicoria”), adesso è il turno della cicoria renziana – Matteo che, ruminando l’erbacea, l’antico maestro Francesco ha superato in gloria e consenso. Chissà se a bordo Arno la cicoria gode della stessa vasta considerazione che può vantare lungo gli argini del Tevere, soprattutto se arricchita di ajo e ojo e in padella ripassata, ma perfetta metafora appare – come del resto già dieci anni fa apparve: ché “pane e cicoria” è più diletto che patimento, come ognuno sa – a voler tener conto (e della resa dei conti in essa annunciata) dell’intervista fresca fresca che Renzi ha dato all’Espresso: un lungo dolersi (manco tanto dolersi, poi: piuttosto sghignazzante) di Boldrini e Landini, Berlusconi e Grillo, Bersani e Rai, ecc. ecc… Perfetta metafora, si diceva. Però rovesciata. Essendo ormai pratico della capitale e del suo dialetto (a Mattè’!), a ognuno di loro più o meno Renzi ha significato, il lucchetto dell’ammaestramento finale mostrando: “Te manno a magnà à cicoria d’à parte d’à radice!”. Siamo adesso alla cicoria della riscossa. E per San Giuseppe, agli indisciplinati manco un bignè fritto alla crema. Solo biscotti di farro.