LA CORTE

Mariarosa Mancuso

La corte nel senso “entra la corte, imputato alzatevi”, e nel senso di “fare la corte” come nessuno usa più. “L’hermine” era il titolo originale, alludendo all’ermellino che Fabrice Luchini indossa in Corte d’assise. Inflessibile e solitario, sfoggia certi giri di frase che difficilmente sopravviveranno al doppiaggio italiano (l’ha detto anche Vincent Cassell, che non bisognerebbe doppiare il film, non è che possiamo pendere dalle labbra degli attori solo quando sparlano di Berlusconi). Non serve ripetere che i doppiatori italiani sono i migliori del mondo. Già abbiamo ascoltato le prime proteste per “Ave, Cesare!” dei fratelli Coen: rispetto al trailer originale che si trova su YouTube, la scena con il cow-boy che disperatamente cerca di pronunciare “Would that it were so simple” al cospetto di Ralph Fiennes regista con sciarpetta non fa più ridere. (Fine della petizione per una copia almeno con i sottotitoli). Fabrice Luchini vede arrivare tra i giurati una bella anestesista che lo aveva curato sette anni prima. Al risveglio– si chiama Michel Racine, tanto per accrescere il tasso di francesità – aveva creduto di vedere un angelo. Era amore allora, ed è di nuovo amore (da lontano, fatto di sguardi, il nostro è un signore d’altri tempi). Era un grandissimo attore in tutti i suoi film precedenti – come “Gemma Bovery” diretto da Anne Fontaine, panettiere che in provincia spia la bella inglese di passaggio. Rimane grandissimo attore in questo film, anche se la sceneggiatura vuole trasmettere intelligenza e delicatezza, un po’ troppo per appassionare davvero. E le coincidenze bisogna saperle usare: i grandi riescono a metterne insieme di molto improbabili, e ci crediamo senza batter ciglio (accade nell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen appena pubblicato in italiano da Einaudi, “Purity”). I meno grandi dovrebbero andarci più cauti. Da accoppiare a “Comédie française”, l’autobiografia che Fabrice Luchini ha appena pubblicato da Flammarion. Figlio di un immigrato italiano e di una donna cresciuta grazie alla pubblica carità, lasciò la scuola a 14 anni per fare l’apprendista parrucchiere. Ma intanto si era innamorato della lingua francese: non leggendo i classici, come potremmo supporre, ma frequentando i ragazzi di strada. Avrebbe poi desiderato essere di sinistra, ma trovava il compito superiore alle sue forze.

 

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