ADIEU AU LANGAGE

Mariarosa Mancuso

Il venerato maestro classe 1930 insiste (nei dintorni di Ginevra, dove vive da eremita, le giornate sono lunghe). Più difficile capire lo sdilinquimento dei critici davanti a un film incomprensibile e tecnicamente miserello, come “Adieu au langage” (ciliegina sulla torta, il Premio della giuria l’anno scorso a Cannes). E allora ci siamo costruiti un romanzetto. Jean-Luc Godard, come chi propone il gioco delle tre carte davanti agli autogrill, o le truffe nigeriane su internet (eredità di una classica frode nota come “la prigioniera spagnola”, ripresa in un film di David Mamet), o gli investimenti dai rendimenti miracolosi (ai Parioli o a New York), sfrutta la credulità umana, nel caso dei critici anche la loro tendenza a sentirsi parte di un’élite che capisce quando gli altri annaspano. Cominciamo a sospettare che il passo successivo sia la piena confessione, al pari di certi falsari letterari che si auto-denunciano quando il brivido dell’inganno si esaurisce (“ma allora era facile”) e subentra la voglia di rivendicare “questo l’ho fatto io, son bravo bravo bravo!”. Sarà un bella mossa situazionista, quando succederà. Per ora possiamo solo sconsigliarvi il film, che in ordine sparso affligge lo spettatore (entità trascurabile e trascurata nella produzione di Godard dalle “Histoire(s) du cinéma” – primo capitolo nel 1988, decimo capitolo nel 1998, il maestro ebbe un problema di diritti con le sue opere precedenti) con un lui e una lei spesso nudi, una scarica di citazioni da Sartre a Blanchot a Lord Byron, riferimenti a Monet e Duchamp, un cane parlante, un gentiluomo inglese, deliri su Natura e Storia, ove a rappresentare la natura sono i personaggi che fanno la cacca. Abbiamo detto personaggi? Guai a noi, la femmina del film – inquadrata ad altezza cespuglietto con la curiosità di un adolescente – guardando “Metropolis” di Fritz Lang sbotta: “Io odio i personaggi” (ma allora perché fai cinema? un poderoso saggio sarebbe più adatto). Le immagini saranno bellissime, immagina lo spettatore ancora fiducioso. Macché: il 3D fa venire il mal di testa, le due immagini non sono sempre sovrapponibili (“il fallimento della dialettica”, abbiamo letto in una recensione che bolla i contrari come “luogocomunisti dell’anticritica”). I filtri colorati o solarizzati, come gli spezzoni agli infrarossi, svelano un’estetica da tv locale.

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