NOI CREDEVAMO

Mariarosa Mancuso

    Film da dibattito. E da proiezioni speciali per le scuole. Anche se temiamo che le scolaresche d'oggi, trascinate nella sala buia invece della lezione di storia (accade anche al Festival del Cinema di Roma, sezione Alice nella Città, e alla Fiera del Libro di Torino, dove li si vede vagare con lo zainetto contundente tra uno stand e l'altro) reagiscano come le scolaresche di ieri. Costrette a leggere, riassumere, commentare “I promessi sposi”, ne ricavano eterno odio per uno dei pochi romanzi italiani che vale la pena di leggere (oltre che uno dei pochi romanzi italiani in assoluto: questo è il paese letterario dove imperò la prosa d'arte, e oggi offre terreno cedevole al cinema d'autore). “Noi credevamo” è appunto un film d'autore, anzi d'autori. Il titolo è rubato a un racconto di Anna Banti, a cui la pellicola liberamente si ispira. Dietro la macchina da presa troviamo il regista principe tra quelli che presero parte al film-manifesto dell'école napolitaine intitolato “I vesuviani” (Claudio Carabba, dopo la proiezione alla Mostra di Venezia, pronunciò la sentenza definitiva: “Meglio morire hollywoodiani che vesuviani”). La sceneggiatura è firmata da Giancarlo De Cataldo, primo – in ordine di tempo – tra i magistrati italiani diventati scrittori. Il film viaggia accompagnato da un libro Bompiani con lo stesso titolo, stampato su una pesantissima carta patinata perché ci sono le fotografie (in rigoroso bianco e nero) e anche le scene tagliate dalla sceneggiatura (caso più unico che raro di director's cut sulla carta, al dvd con le scene espunte dalla pellicola si aggiungono le pagine espunte dal copione). La copertina coincide con il manifesto del film, che mostra una ventina di soldati all'assalto ed è praticamente l'unica scena di massa in questa epica nazionale. All'interno, la domanda: possibile che, a differenza di altri movimenti nazionalisti, l'Italia non abbia conosciuto il terrorismo? Seguono le vicissitudini produttive cominciate nel 2003 – l'anno esatto in cui un geniale giovanotto dall'altra parte dell'oceano inventava Facebook – durante un incontro tra scrittori e artisti che a Roma occupavano il cinema Rialto. Il primo trattamento lo scrisse di propria iniziativa Antonio Moresco (“un testo bello e formalmente ardito, un'accensione visionaria” garantisce Martone, ma inutilizzabile per un film storico). Appendice, da leggersi sui quotidiani: la polemica sull'uscita in sala – troppe poche copie, e neppure in tutti i luoghi storici del Risorgimento italiano – e il rimpallo di responsabilità tra produttori e distributori. Attualmente il film dura mezz'oretta in meno rispetto all'edizione veneziana di tre ore e venti. Segue i destini di tre giovani del Cilento (Domenico, Angelo e Salvatore) intrecciati tra di loro dopo i moti insurrezionali del 1828. I Borboni sparano e arrestano. Meno male che c'è Giuseppe Mazzini e la sua Giovane Italia.