Savall ha terminato gli studi presso la Schola Cantorum di Basilea alla fine degli anni Sessanta e ha poi ereditato la cattedra del suo maestro (foto Ap, via LaPresse)

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Quei tesori dimenticati e muti, che tornano a risuonare. Conversazione con il maestro Jordi Savall

Stefano Picciano

Dalla folgorazione infantile per il Requiem di Mozart alla riscoperta dei tesori musicali dimenticati: il viaggio del musicista, maestro della viola da gamba e instancabile esploratore di una bellezza che attraversa i secoli

"Se la musica ha questo potere, se può arrivare in modo così forte all’anima, allora mi piacerebbe essere musicista”. L’immagine è suggestiva e di immediato impatto: un ragazzino, ai primi anni di studi musicali nel Conservatorio della sua città – Igualada, a poco più di cinquanta chilometri da Barcellona – giunge a lezione in anticipo e si imbatte nelle prove del Requiem di Mozart. Seduto in disparte, rimane silenzioso e attonito di fronte a un’esperienza inaspettata, spettatore di una bellezza che sembra porre le premesse di una vera e propria vocazione: “Quella musica mi apparve come la cosa più bella del mondo. Rimasi lì, seduto in un angolino, ad ascoltare a lungo, come incantato. Fu un’emozione come non ne avevo mai sperimentate”. 

 

Jordi Savall è una figura fondamentale del panorama musicale del nostro tempo, un esploratore del passato, un cercatore instancabile dei tesori che la storia della musica custodisce. La carriera del maestro catalano è interamente, si potrebbe dire, un dialogo con una bellezza che continua a porre l’essere umano in contatto con sé stesso, mettendo a tema quel fondamento essenziale che è comune all’uomo di ogni tempo. La sua carriera come violista, come direttore, come ricercatore è vastissima e nell’arco di sessant’anni lo ha condotto – in un itinerario nella musica che il nostro passato custodisce, dai manoscritti medioevali agli splendori del Rinascimento, dall’eterogeneo repertorio barocco a percorsi nelle tradizioni popolari, fino alle rarità celtiche, armene, sefardite – verso avventurosi recuperi di pagine altrimenti lasciate nell’oscurità, nella dimenticanza, nell’oblio: un lavoro da filologo, immerso nella appassionante fatica di chi sa quanti luoghi – biblioteche, monasteri, archivi – custodiscono un’eredità inimmaginata di partiture mute da secoli che possono tornare, dopo tanto tempo, a risuonare.

 

In occasione del suo ritorno in Italia abbiamo potuto dialogare con il maestro ascoltando dalla sua voce, in una lunga conversazione, i ricordi a cui è più legato, dalle memorie più remote (“Mia madre aveva una bella voce e amava molto cantare: ricordo la ninna nanna che mi cantava e credo che quei primi anni abbiano avuto un ruolo decisivo nella formazione della mia personalità”) alla determinazione con cui il giovane, profondamente segnato dall’esperienza del canto corale nell’infanzia, individua la strada da seguire: “Lo strumento che mi affascinava maggiormente era il violoncello; così appena riuscii a mettere da parte un po’ di soldi andai a Barcellona e acquistai un violoncello di seconda mano. Ricordo che al ritorno a Igualada, nel tragitto dalla stazione a casa, passai per le strade secondarie affinché nessuno mi vedesse passare con quell’enorme strumento…”. Le difficoltà dei primi tempi, le perplessità espresse dai coetanei, le incertezze connesse all’ipotesi di una professione nella musica sono oggi rievocate con divertita ironia: “In quell’epoca la maggior parte dei musicisti aveva perduto il lavoro a causa dell’avvento dei dischi, della musica riprodotta, così che fare il musicista significava con buona probabilità rimanere disoccupato. In quegli anni aspirare a diventare musicista significava per molti garantirsi un futuro senza occupazione. Ci è voluto coraggio per proseguire e riconoscere che quella era la mia strada. Il fatto è che nel momento in cui tu credi in un sogno… la vita acquista senso”.

 

Ben presto, infatti, in quei primi tentativi emerse un fascino capace di assumere le sembianze di una promessa per l’avvenire, come un germoglio destinato a maturare nel tempo: “Mi accorsi che molto rapidamente trovavo il modo di estrarre dallo strumento un suono adeguato – che era solo iniziale ma allora dovette apparirmi meraviglioso – e ricordo che in quel momento provai immediatamente la sensazione di essere a casa, di essere al mio posto”.

 

Verso la metà degli anni 60, dopo il compimento degli studi di violoncello, venne il passaggio alla viola da gamba, uno strumento – allora pressoché sconosciuto – appartenente ai secoli XVI e XVII, caratterizzato da un suono dolce e malinconico, capace come pochi altri di riportarci ad atmosfere musicali poi perdute, con l’avvento delle più brillanti tonalità del classicismo, nelle profondità della storia.

 

Come è avvenuto questo passaggio? “Un giorno, a Barcellona, entrai in ‘Casa Beethoven’ – un negozio musicale che esiste tuttora sulla Rambla – chiedendo di vedere gli spartiti per violoncello, e tra gli altri trovai le Sonate per viola da gamba di Bach, le Recercadas di Diego Ortiz, le Pièces de viola di Marin Marais… acquistai molte di quelle musiche e mi misi a studiarle. In seguito, poco dopo la fine dei miei studi, durante un corso di perfezionamento l’insegnante, che era il clavicembalista Rafael Pujana, mi disse: ‘Jordi, ti rendi conto che tutte queste musiche che stai studiando con il violoncello sono state composte per viola da gamba? Perché allora non provi a suonare proprio la viola da gamba?’”. Tornano alla mente, mentre il maestro racconta, le parole che nella Commedia Virgilio rivolge a Dante: A te convien tener altro vïaggio. Mentre lo ascolto, penso che il vero maestro è colui che, sempre rispettando la libertà dell’allievo, sa assumersi il rischio di orientare. Savall sorride rievocando l’entusiasmo giovanile di allora: “Ricordo che tornando verso casa, mentre ero sul treno, presi il mio taccuino e semplicemente scrissi l’annotazione: ‘Cercare una viola da gamba’. La cosa sorprendente è che poco dopo, rientrato a Barcellona, alcuni amici che stavano preparando un’incisione di musiche rinascimentali con la grande soprano Victoria de los Ángeles, mi cercarono per chiedermi se volevo suonare proprio la viola da gamba in quella incisione. Tutta la mia vita è fatta di circostanze che, come questa, sembrano coincidenze”. 

 

Vennero dunque i segni che questa poteva essere la strada da seguire: la graduale consapevolezza dei tesori – non di rado totalmente sconosciuti – che il passato racchiude dovette apparire agli occhi di quel giovane come un suggerimento pieno di fascino e attrattiva: “Così mi sono messo a lavorare sulla viola da gamba: seguirono tre anni intensi di ricerca nei quali sono stato a Parigi, a Bruxelles, a Londra e nelle biblioteche ho potuto trovare una vera e propria miniera di opere sconosciute”. Savall intuisce che avrebbe potuto incentrare il suo impegno su tesori musicali altrimenti dimenticati: “Trovai una quantità di opere di incredibile bellezza che stavano dormendo nel sonno più profondo. Sfogliavo quelle pagine con emozione… ‘Come è possibile – mi dissi – che ci siano queste musiche meravigliose e nessuno le esegua?’. In quegli anni, infatti, erano pochissimi i musicisti che si occupavano di musica antica: è stata una scoperta straordinaria, che ha cambiato la mia vita”. Quei maestri dei secoli passati di cui iniziò a studiare i manoscritti – gli domando – erano una compagnia per lei? Possiamo dire che questo lavoro svolto in solitudine era in realtà caratterizzato da una compagnia? “Erano ancor più di una compagnia… erano i miei maestri. Sì, perché cercando di imparare le loro musiche essi mi ‘insegnavano’ come suonare. Quando ho iniziato a suonare la viola da gamba non avevo nessun insegnante che mi spiegasse come fare. Ma studiando quelle musiche a poco a poco intuivo come fraseggiare, come tenere l’archetto, come eseguire adeguatamente quelle melodie”. 

 

Presso la prestigiosa Schola Cantorum di Basilea porta a termine gli studi sul finire degli anni 60 e, ereditando in seguito la cattedra del suo maestro, Savall consolida la sua attività di ricercatore, concertista, insegnante, divenendo per tanti un decisivo punto di riferimento. Sempre di più il suo sguardo si rivolge al vasto patrimonio musicale dei secoli passati per dedicarsi al recupero dei suoi innumerevoli tesori, nell’intento di restituirli al presente nella loro intatta bellezza. Molti, nel frattempo, erano stati i frutti di un’attività concertistica intensa: nel 1974, insieme alla moglie Montserrat Figueras e con la collaborazione di altri rinomati musicisti, dà vita a “Hespèrion XX” – dal 2000 ribattezzato “Hespèrion XXI” – un ensemble orientato alla riscoperta della musica di area mediterranea (Hesperia era infatti il nome latino riferibile all’area comprendente Italia, penisola iberica e Francia meridionale) di epoca medievale, rinascimentale, barocca. Nel 1987 nasce “La Capella Reial de Catalunya”, per la valorizzazione di un repertorio incentrato sulla musica antica spagnola, mentre due anni più tardi, nel 1989, nasce l’orchestra “Le Concert des Nations” con l’intento di riproporre al pubblico contemporaneo le opere di grandi autori del passato – molte delle quali incise in prima esecuzione moderna – colte in una rigorosa prospettiva storica: sono state così riproposte al nostro tempo innumerevoli pagine di autori celeberrimi come Johann Sebastian Bach o Antonio Vivaldi, ma anche di compositori meno noti al pubblico quali Marc-Antoine Charpentier, Marin Marais, François Couperin e innumerevoli altri, in un rigore filologico teso a restituirci – proprio come in un viaggio nel tempo – le sonorità originali, per “riportare nel nostro secolo tutta la bellezza e tutta la ricchezza di queste opere”. 

 

Molte altre parole sarebbero necessarie per restituire i tratti di un instancabile itinerario nella musica, arte che lui definisce “il linguaggio umano più universale, che non ha bisogno di traduzione perché parla sempre al cuore dell’uomo”. Un viaggio confluito nell’incisione di numerosissimi album e, dal 1998, nella creazione dell’etichetta musicale “Alia Vox”: una “voce altra” guidata dalla volontà di riproporre al presente un repertorio sovente inusuale, eppure capace di offrire anche all’uomo di oggi un suggestivo itinerario nella propria storia, nella propria cultura, nelle proprie radici. Per ritrovare, guardando al passato, sé stesso. 

 

Un po’ come Odisseo durante il suo viaggio nel Mediterraneo, Jordi Savall ha sempre spaziato da un ambito all’altro della cultura musicale con un ardente desiderio di conoscenza, una tensione a cogliere i fondamenti di ciascuna espressione per restituircela, attraverso i secoli, intatta. E, come in Omero, scopriamo che in questo viaggio la meta non è un determinato luogo o una certa cultura bensì, più profondamente, la possibilità che l’uomo ha di solcare il mare per trovare sé stesso. Cioè ciò che è essenziale. “Noi viviamo in un mondo – dichiara Savall – in cui tutto è disponibile, ma sempre di più si ha la sensazione di perdere ciò che è essenziale”. La musica – gli chiedo dunque – può essere vista come un tentativo di comprendere ciò che nell’essere umano è essenziale? Il dialogo tocca, così, il legame tra la musica e il silenzio, che lui definisce “condizione necessaria per sentire lo spirito: il silenzio ci permette di trovare il senso delle cose”, e poi aggiunge: “E’ necessario ‘ripulire’ l’interiorità, eliminare tante influenze che vertono ogni istante su di noi. Per esempio, bisogna capire che fare un concerto non vuol dire mostrare di essere un virtuoso, ma essere lì per gustare la bellezza della musica che si esegue. Si può imparare a ritrovare questa serenità: nel momento in cui ascolto attentamente il suono dimentico tutto il resto. Si tratta di vivere il presente, che sia sistemando la cucina, pulendo la casa o eseguendo un’opera musicale: vivere con pienezza ogni istante”.

 

La musica è una forma d’arte che avviene unicamente nel presente, per questo ogni esecuzione è diversa dalle precedenti. Come vive – gli chiedo – questa esperienza nel suo lavoro? “Questa – risponde – è una delle cose più belle. Io studio ogni giorno per arrivare preparato all’esecuzione, ma nel momento del concerto si scopre che la preparazione e l’allenamento sono in realtà solamente la base che rende possibile la libertà. La musica in quel momento mi fa sentire delle cose che non avevo immaginato. È come se essa domandasse delle cose in più rispetto a ciò che si è previsto, ed è questo che permette di arrivare alla profondità delle cose”. E’ ormai ora di concludere il dialogo, e voglio proporre al maestro un cenno su un tema sul quale amo molto riflettere: chi lavora con la musica ha a che fare con una bellezza che rimane sempre qualcosa di sconosciuto, qualcosa che è evidentemente presente eppure che può essere approfondita sempre di più. “Esattamente. Ogni singola esecuzione è una scoperta. E per fortuna, altrimenti sarebbe insopportabile… Se pensiamo di aver già trovato tutti i segreti di un’opera musicale, in quel momento quell’opera non ha più interesse. E’ la stessa cosa che accade con l’essere umano: non arriviamo mai a conoscere pienamente una persona che amiamo: c’è sempre qualche cosa di nuovo da scoprire”. 

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