“Ho trovato nel jazz la mia libertà”. La voce dell'Ucraina che suona l'amore supremo di Alice Coltrane

Raffaele Rossi

Dalla Leopoli sovietica alla Londra del nuovo jazz, Alina Bzhezhinska racconta la sua storia di resistenza e spiritualità attraverso l’arpa. “La nostra musica è rinata nella guerra. L’arte tiene unito il mio popolo e mi permette di parlare con il mondo senza usare le parole”. Dal vivo al Roma Jazz Festival

“Vengo da una famiglia ucraino-polacca, siamo stati oppressi e abbiamo lottato per la libertà per secoli. Quando cresci sapendo che i tuoi nonni sono stati deportati in Siberia, costruisci una grande forza interiore e non permetti più a nessuno di toglierti la libertà. È difficile vivere con questa pressione, ma sono immensamente grata di aver trovato il jazz, che è diventato la mia lingua per raccontare la mia storia”. Nelle composizioni dell'arpista ucraina Alina Bzhezhinska c'è tutto: “amore, sofferenza, resistenza all'oppressione e speranza di pace. Le persone mi capiscono meglio quando mi sentono suonare”, racconta al Foglio la musicista che celebrerà per la prima volta dal vivo in Italia le opere di Alice Coltrane, mercoledì 12 novembre all'Auditorium Parco della Musica per il Roma Jazz Festival. Accompagnata dagli HipHarpCollective - band composta da Kobe Heath Ngugi al basso, Matt Holmes alla batteria, Joel Prime alle percussioni - con l'illustre compositore e musicista Brian Jackson e il celebre sassofonista Tony Kofi. Nata a Leopoli, dove ha iniziato la sua formazione classica, ha studiato in Polonia, Germania e Stati Uniti, prima di stabilirsi a Londra, città fulcro della nuova scena jazz mondiale e in cui il genere ha ripreso a viaggiare sull'onda di una linfa creativa innovativa. “La musica ucraina è diventata più forte durante la guerra – continua a raccontare – per molti anni la nostra cultura è stata repressa dalla propaganda sovietico-russa, e spesso la nostra musica veniva presentata al mondo come russa. Ora – prosegue - sempre più ucraini sono consapevoli della propria identità e della propria cultura unica, e sono orgogliosa di vedere musica, letteratura e arte fiorire sia in patria che fuori”. Alcuni artisti si sono trasferiti all'estero “per sicurezza e rappresentano l'Ucraina in esilio, altri sono rimasti e lavorano nel paese”. È importante, secondo la musicista, “mostrare al mondo l'alto livello di musica e arte che rappresentiamo e sostiene il morale del nostro popolo. Vivo in Occidente da oltre vent'anni, ma torno spesso in Ucraina per missioni umanitarie o per suonare negli ospedali. Aiuto anche a raccogliere fondi per programmi di sostegno ai bambini sfollati, arteterapia e riabilitazione. Molti miei amici artisti ucraini uniscono l'arte al lavoro di beneficenza, questo fa parte della nostra realtà e ci unisce”.

  

Nelle sue opere mischia la spiritualità afroamericana e la tradizione classica europea. Sente di appartenere a entrambe le culture musicali?

Amo l'innovazione e il pensare fuori dagli schemi. Da adolescente facevo mixtape e ancora oggi amo tantissimi generi diversi: dai tamburi africani al rap, fino all'opera italiana. Quando creo mi sento parte dell'universo e abbraccio le sue infinite possibilità.

  

Alice Coltrane è al centro del suo nuovo progetto che porterà a Roma. Qual è stato il suo primo contatto con la sua musica?

Quando ho iniziato ad ascoltare la musica di Alice Coltrane, ho capito subito che si trattava di qualcosa di rivoluzionario. Non come forma di protesta, ma come espressione di libertà spirituale. All'epoca studiavo musica classica e quella libertà di improvvisazione mi faceva quasi paura. La sua espressione è originale e innovativa, non avevo mai sentito nessuno così calmo nella vita privata e al tempo stesso così potente sul palco.

  

   

Album spirituali come Journey in Satchidananda e Ptah The El Daoud cosa rappresentano per lei oggi?

Tutti i venti album di Coltrane sono portatori di un messaggio di continuità universale e ci conducono in un viaggio musicale trascendente. In questi due sento moltissimo amore, ma anche lotta e accettazione. La ragione per cui la sua musica oggi torna a vivere in modo nuovo è che porta un messaggio di pace per l'umanità. Ed è qualcosa che tutti cerchiamo, ora più che mai. Vorrei che noi esseri umani potessimo fermarci, riflettere e iniziare a cambiare, avendo in mente un “amore supremo”, per parafrasare un suo album.

 

Pensa di aggiungere qualcosa all'eredità musicale della pianista statunitense?

Coltrane è stata una grande innovatrice e ammiro la sua capacità di fondere le tradizioni dell'Est e dell'Ovest, il jazz e la musica classica, insieme a pratiche spirituali e tradizioni gospel. Quando creo la mia musica, combino diverse tradizioni etniche e culturali e spesso nascono risultati straordinari.

 

Ha detto più volte di voler “portare l'arpa al centro del suono contemporaneo”. In che senso?

L'arpa viene ancora trattata come una curiosità. Educare le persone richiede tempo e dedizione. È un viaggio: spesso un successo, a volte una lotta. I membri della mia band scherzano dicendo che alcuni promoter hanno paura di me e per questo non possono rifiutare le mie proposte. Ci ridiamo sopra, ma ho davvero dovuto “farmi la pelle dura” per stare in questo ambiente e accettare che non tutti comprendano la mia visione.

 

Qual è stato il momento in cui tutto è cambiato nella sua carriera?

Quando ho fondato la mia band otto anni fa, il direttore del London Jazz Festival ci ha sentiti e ci ha invitati a suonare al Barbican insieme a Pharaoh Sanders. Dopo quel concerto si sono aperte molte porte con album e collaborazioni. Poi la vittoria del UK Parliamentary Jazz Award come Miglior Ensemble dell'Anno.

 

Cosa unisce la sua sensibilità ucraina alla visione afro-jazz di Brian Jackson e all'energia hard-bop di Tony Kofi?

Veniamo da contesti e culture molto diversi, ma c'è qualcosa in questa miscela che ci rende forti insieme.