
Lino Capra Vaccina e Mai Mai Mai registrano “I racconti di Aretusa” nella chiesa di Gesù e Maria a Ortigia (foto Glauco Canalis)
Senti che Baccano. Epopea e rivoluzione della musica tradizionale
La Luiss lancia la sua casa discografica: "Baccano". La Sicilia è al centro dei primi tre album che mescolano musica popolare ed elettronica, veterani mitologici e coraggiosi sperimentatori, per dare nuova vita alla tradizione
“Fino ai tempi di Demetrio Falereo gli Ateniesi conservavano la nave su cui Teseo partì insieme coi giovani ostaggi e poi ritornò salvo, una trireme. Toglievano le parti vecchie del legname e le sostituivano con altre robuste, saldamente connettendole fra loro, in modo che essa serviva di esempio anche ai filosofi quando discutevano il problema della crescenza, sostenendo alcuni che era la stessa nave, altri che non era più la stessa” (Plutarco, “Vite di Teseo e Romolo”, 23, 1).
Il paradosso della nave di Teseo: se tutti i pezzi di una nave vengono sostituiti, è ancora la stessa nave? Così accade alla musica popolare. Strumenti, timbri, parole: tutto cambia, tutto si rinnova. Ma nell’eco del canto, nelle mani che lo trasmettono, resta intatto ciò che conta davvero: il viaggio, e la memoria che continua a muoversi in avanti. Non è la purezza del legno antico a tenerla viva, ma il percorso che continua – e chi la guida, rinnovando rotta e memoria.
Da questo punto di vista, Baccano, nuova etichetta discografica e laboratorio di ricerca sonora della Luiss University Press, si inscrive proprio in questa tensione: non si tratta di cristallizzare la tradizione, ma di abbracciarne la trasformazione, lasciando che la musica antica parli oggi con suoni e linguaggi contemporanei, che ritorni liturgia collettiva in un tempo post-religioso e iper-digitale: che la festa e il rito, il baccanale e il sacro suonino attuali. Non è revival e non è accademia: è arte della navigazione.
Operazione anti-commerciale? “No”, dice l’ideatore Daniele Rosa, “l’appeal della musica ‘difficile’ è persino sottovalutato”
“Creare musica tradizionale però nuova. Non è un controsenso. Capisco sia una cosa inconsueta ma non ne vedo la bizzarria”, dice Daniele Rosa, l’ideatore di Baccano. “Credo sia importante che le università promuovano la ricerca in ogni senso e che la facciano arrivare anche fuori dai campus. In un’epoca in cui per le imprese commerciali è più difficile proporre prodotti sperimentali, credo che un’istituzione culturale possa dedicare una parte del suo operato a esplorare territori che il mercato fatica a coprire. Anzi, mi piacerebbe se qualcun altro imitasse questo modello”. I dischi di Baccano non sembrano fatti tanto per “piacere”, quanto per “scavare”. Ma esiste ancora un pubblico per la fatica dell’ascolto? O si tratta di un’operazione volutamente anti-commerciale? “Certo che no”, prosegue Rosa, “i dischi si vendono. E si vendono pure bene: lo scaffale delle prime edizioni è quasi vuoto, quindi effettivamente esiste un pubblico che va oltre gli appassionati. Forse la musica cosiddetta ‘difficile’ non farà i 250 mila ticket di Ultimo, non riempirà l’Olimpico, ma secondo me il suo appeal è persino sottovalutato. Semplicemente molti non la conoscono perché non sono esposti a musiche complesse. E’ proprio questo che noi stiamo cercando di fare”. Uscire dal porto sicuro.
Il varo. La Sicilia
Il progetto debutta con tre dischi. C’è il rito, “I Racconti di Aretusa” di Lino Capra Vaccina e Mai Mai Mai (ne parleremo), e c’è il ritmo, “La macchia” di Alfio Antico e Go Dugong, l’album forse più facilmente godibile. Il punto di partenza sono la voce viscerale e il ritmo ipnotico dei tamburi di Alfio, registrati con scienza e fantascienza dal vulcanico Tommaso Colliva (Calibro 35 eccetera eccetera). Quei “nastri” digitali ritornano a Go Dugong, sporchi di polvere e terra, e lui ci costruisce sopra una scala ballabilissima per il cosmo. E poi c’è il disco senza titolo di Maria Violenza con Irtumbranda e Tropicantesimo. È il più tradizionale e, insieme, il più spiazzante. L’atmosfera è quella di una festa privata, tra ritualità pagana e rumori d’appartamento, tra folklore e dub. Non c’è narrazione lineare ma frammenti: è un disco che ti chiede di perderti per ritrovare un senso.
Voci viscerali e tamburi ipnotici nel disco di Alfio Antico e Go Dugong. Poi la “cuntastorie” Maria Violenza e il profeta minimalista Lino Capra Vaccina
A legare i tre album è la Sicilia, punto di partenza del progetto discografico. L’isola come uno specchio: un luogo che si guarda da fuori e si reinventa ogni volta che qualcuno ci torna con strumenti nuovi. Non una scelta consapevole ma il frutto quasi esoterico di un caso che – sussurrano i curatori e gli artisti che abbiamo sentito – in fondo non esiste: l’isola è arrivata da sé, come un’eco che torna dal mare. Un arcipelago di storie e suoni che si annodano nelle voci dei pescatori, nei tamburi delle feste patronali, nella baraonda dei mercati e nei silenzi delle campagne bruciate dal sole. “Chiamatela superstizione – dicono – ma siamo convinti che nulla accada per caso. Non partivamo con l’idea di fare dischi dedicati alla Sicilia, ma ci siamo accorti abbastanza presto che le persone che stavano raccogliendo l’invito venivano e andavano da lì”.
L’obiettivo di Baccano è comunicare il passato col gusto di oggi. Ma quale passato? “Comunicare un vissuto, come quello di Alfio Antico o di Maria Violenza, cresciuta in una famiglia cuntastorie dove si suonava e cantava ogni domenica a pranzo”, dice Cutrone. “O un passato magari un po’ più arcaico e mitico come quello che approcciamo io e Lino, a nostro modo: non è tanto un’esperienza reale della tradizione, quanto un’ispirazione legata a ciò che in quel momento ci raccontavano il Mediterraneo, la Sicilia e Ortigia”. Miti e leggende, ninfe e oasi d’acqua dolce in mezzo al salmastro.
La ciurma
L’ambientazione fa tanto. Ma poi certo, come in ogni buona epopea, ci vogliono personaggi memorabili. Intanto qualche essere sovrumano, mitologico sin dal nome: Lino Capra Vaccina, profeta del minimalismo italiano, collaboratore di Franco Battiato e Juri Camisasca, ma anche percussionista nell’orchestra della Scala. La sua poetica è fatta di bordoni, vibrazioni lunghe, silenzi.
Il ciclopico Alfio Antico, pastore a Lentini fino ai diciott’anni, costruttore di tamburi con pelli di pecora e setacci contadini. Scoperto da Eugenio Bennato a Firenze, ha inciso cinque album con Musicanova e suonato al fianco di De André, Dalla, Carmen Consoli e Vinicio Capossela.
E poi ci vogliono gli Ulisse, gli sperimentatori coraggiosi: l’alchimista elettronico Giulio Fonseca, in arte Go Dugong, uno dei nomi più originali della scena italiana contemporanea. Qui lavora accanto ad Alfio Antico, intrecciando i timbri primitivi di tamburi e voce a codici elettronici. Una cavalcata da manuale tra la tradizione mediterranea e l’ipnosi digitale.
Maria Violenza, cantastorie punk e sintetica, sirena vendicatrice dell’underground, che nel suo disco si sdoppia: in un Lato A con Luciano Turella (Irtumbranda) rianima il canzoniere siculo e in un Lato B lo frulla nel tritatutto sonico della crew di Tropicantesimo. Sogno acido tra l’intimità di una cucina palermitana e il chiasso di una ingorda nottata al Pigneto. Maria Violenza offre una tessera preziosa: un respiro che lega il tradizionale all’onirico, la festa privata all’esperienza comunitaria.
Infine Toni Cutrone, l’anima nomade di Mai Mai Mai, sempre al confine tra archè e innovazione. Evoca fantasmi e costruisce incontri. Curatore artistico del progetto, firma con Vaccina il secondo album “I racconti di Aretusa”, nato durante una residenza per Ortigia Sound, culminata in una registrazione nella Chiesa di Gesù e Maria. Un’oasi di pace in quell’isola nell’isola che è la città antica di Siracusa. “Prima abbiamo registrato le voci dei vicoli, le grida del mercato e dei gabbiani, i rumori delle barche”, racconta Cutrone. “Quei suoni erano come partiture scritte da qualcuno, non materiale da campionare e mettere in loop. Partivamo da quel field recording, lo facevamo suonare nella navata e ci lasciavamo ispirare per poi improvvisarci sopra”. Così lo spazio (un tempo sacro) è diventato il terzo musicista. “Il suono – s’aggiunge Lino – si muoveva verso l’alto e tornava verso il basso. Respirava con le mura. Le chiese hanno una riverberazione naturale che adoro: all’epoca, non essendoci l’amplificazione, per farsi sentire fino in fondo chi diceva messa aveva bisogno di un riverbero abbastanza ampio. Gli spazi collaborano, diciamo così, a rievocare una certa spiritualità che spesso nel nostro presente ci sfugge. A fissarla in una immagine, una sensazione, un profumo. In un’idea. Toni e io proviamo a farla vivere oggi e abbiamo anche la presunzione di proiettarla nel futuro”, sorride il musicista. “Proviamo a suonare un’elettronica folk, perdonate il termine, che possa prosperare nel nuovo millennio”.
Il rito, il ritmo, il ricordo
I quattro brani che compongono il disco “I racconti di Aretusa”, all’inizio li chiamavano “quadri”, raccontano Lino e Toni. Perché erano immagini più che composizioni. “In Sicilia ho ritrovato quella metafisica che mi ricorda De Chirico: luce sospesa, tragica e festiva insieme”, dice Lino. “Io sono originario della Puglia e ho ancora nelle orecchie certi suoni che mi hanno accompagnato all’inizio della mia vita: il rumore della risacca marina o della brezza che passa attraverso i canneti che allora coprivano le dune e oggi sono scomparsi. Le cicale: una musica che mi accompagnava tutta l’estate. E poi i profumi e certe atmosfere. I riti, le sagre paesane, le cantilene delle donne in processione. Quella luce che ti lascia senza fiato e certi batuffoli di nuvole. Insomma, non voglio fare troppo il poeta, però sono cose che mi hanno accompagnato e in qualche modo mi hanno ispirato, da un punto di vista musicale, in questo progetto”. Lo segue Toni: “Quella di mio padre era una famiglia di marinai e armatori: spesso da piccolo andavo per navi nei porti di Calabria. C’erano lingue incomprensibili, banconote straniere, e poi facevamo dei giri nelle sale motori. Sono delle stanze intere fatte di motori e tu là in mezzo ti senti uno scarafaggio. Quel misto di mare, romanticismo e tramonti, impastati al rumore dei macchinari, alla puzza del diesel, all’acqua sporca per gli scarichi era il mio primo approccio al Mediterraneo. A tutto quello che Mediterraneo significa: da una parte un’essenza sovrastatale e sovra-culturale che unisce, un bacino che mi ha ridato tanto anche nella musica. Ma dall’altra pure un Mediterraneo bello cattivo: per ciò che nasconde lontano dalla superficie, per il suo essere un confine devastante e una tomba a cielo aperto”.
Il Mediterraneo, “romanticismo e tramonti impastati al rumore dei macchinari”. E’ possibile evitare la “techno pizzica da supermercato”
Scansiamo Scilla e Cariddi, evitiamo tempeste e altri incubi da marinai. Legati stretti all’albero, infiliamoci le cuffie e riprendiamo a sentire il baccano che fa. E a farci raccontare come si fa. Come si costruisce il dialogo tra digitale e ancestrale senza farne una semplice fusione? In altre parole: come si evita l’etnico-elettronico di massa, “la techno pizzica da supermercato”, come la chiama Cutrone? “Grazie ai tanti vissuti personali degli artisti, che escono fuori da queste registrazioni”, dice lui. Per Daniele Rosa, “la musica sa arrivare più rapidamente di altre forme d’arte a toccare delle corde molto sensibili e profonde. Un suono in qualche modo ti cattura subito mentre un libro devi aprirlo, combatterci pagina dopo pagina”, e qui si sente la sua passione nerd e anche il sollievo di uno che veste pure i panni di direttore della casa editrice di una delle principali università private del paese. “Questi tre dischi sono diversissimi però in qualche modo anche congrui l’uno all’altro. Toccano le nostre radici, nel tentativo di dimostrare che sanno vibrare vive e vitali, che non languiscono in reinterpretazioni museali. Un po’ anche basta con Ernesto De Martino! Con tutto il rispetto, ma se la musica mediterranea è finita lì, abbiamo un grosso problema”.
Nuove rotte
Adesso dove punta la bussola? La prossima tappa quale sarà? “Il comune denominatore dovrebbe restare l’Italia”, spiega Rosa. “Stiamo esplorando diverse traiettorie. Una è diretta al nord. Quando pensi alla musica tradizionale italiana pensi alla taranta: e allora andiamo a vedere come suonano i camuni. Ed è sorprendente! Con un’altra traiettoria parallela ci piacerebbe molto esplorare il mondo modulare, quello dei synth. Anche perché sono una tecnologia in gran parte made in Italy”. Il distretto tecnologico delle Marche, che ha raggiunto l’apice negli anni ‘80, ha contribuito alla scena musicale internazionale con i suoi sintetizzatori. Da qui arrivavano l’organo dei primi Pink Floyd o la tastiera dei Doors, tanto per citare due sconosciuti.
La globalizzazione del suono è una minaccia? “Ma gli appassionati hanno potuto scoprire etichette e artisti straordinari da tutto il mondo”
Mai Mai Mai, Alfio Antico, Lino Capra Vaccina, Maria Violenza: Baccano dà voce a “outsider famosi”, giusto per continuare a navigare nell’ossimoro. Ma è possibile fare rottura senza marginalità? Negli ultimi decenni, la sperimentazione musicale ed estetica sono nate ai margini: nei club, nei centri sociali, nelle crew, nelle scene locali, nei territori periferici (non solo geograficamente, ma anche simbolicamente). Invece, con Baccano, un’etichetta istituzionale si fa promotrice di un linguaggio sonoro radicale, arcaico e “inquieto”. Un’istituzione può davvero produrre dissonanza? O rischia, con la sua autorevolezza, di assorbirla, neutralizzarla? “Ma noi ‘siamo’ ai margini!”, sorride Rosa. “Chi fa innovazione, ricerca, scoperta è sulla frontiera, benché in una posizione privilegiata: un territorio periferico ma di avanguardia”. Non tanto un podio ma una trincea, insomma. Rosa dice di comprendere perché qualcuno definisca una minaccia il mainstream e la globalizzazione, anche quella del suono, e di sicuro sa che c’è chi può storcere il naso davanti a un progetto che vuole accostare la parola tradizione alla parola innovazione. Sa che c’è chi sostiene che la nave, rifatta con materiali nuovi, a un certo punto non sia più quella di Teseo. Non per niente vincono i Trump. Ma come tutti i visionari, guarda oltre: “È anche grazie a quella globalizzazione del suono se negli ultimi anni tanti appassionati di musica hanno potuto scoprire artisti ed etichette straordinarie, basate magari a Kampala in Uganda. Musica che viene dal futuro e al tempo stesso rimane intimamente africana. Oppure etichette indonesiane, cinesi o collaborazioni tra musicisti di diverse parti del mondo. Ci sono tecnologie a basso costo, software alla portata di tutti, che fanno fare e ascoltare musica che è al tempo stesso totalmente contemporanea e totalmente tradizionale. Si perde qualcosa? Forse sì. Ma forse anche quando non avevamo l’automobile c’era del bello nell’andare a piedi. Però poi siamo arrivati più lontani. Scusa la banalità”.
Alla fine, resta il suono. Non world music da cartolina, più radicale di un folklore archivistico, in fondo la nave di Baccano cerca di veleggiare in equilibrio instabile: è un corpo antico dal respiro elettronico, costeggia un’Italia che pulsa fuori da ogni mappa definitiva. Un progetto universale nelle sue radici, libero nelle sue ramificazioni. Nella chiesa di Ortigia, durante le registrazioni, il tempo sembrava fermarsi. “Il suono saliva e scendeva, respirando con le mura”, ricordava Vaccina. Fuori, il mercato gridava, il mare luccicava scuro. E’ lì che Baccano ha spiegato le vele. E ora è pronto a prendere il largo. “Quando le cose accadono, non accadono per caso”.



il ritmo dell'estate