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il ritmo dell'estate

Nell'estate musicale è tutto un revival, una reunion, un anniversario

Stefano Pistolini

Un’estate che si consuma senza un suono proprio, che racconti il presente, ormai confinato in un angolo remoto. Ci siamo inoltrati in una stagione senza musica: c'è la sua celebrazione, c'è il suo riuso, ma è tutto un ripassare per luoghi noti 

Non so se lo avete notato, ma ci siamo ormai inoltrati in un’estate senza musica. Mai come quest’anno la musica viene a mancare nel suo ruolo di sonorizzare, distinguere, rendere memorabile una stagione. Non che non ci siano le occasioni naturalmente, anzi, ciascuno ne può trovare a proprio uso e consumo, si tratti d’essere entrati prodigiosamente in possesso di un ticket per una data del revival tour degli Oasis, vuoi che ci si accontenti d’appostarsi sugli spalti dello Stadio Olimpico in una delle serate di Ultimo (magari non quella dell’alluvione), vuoi, come hanno fatto certi amici, che si prenda un aereo e una pausa dalla routine per affacciarsi a Berlino o in un altro angolo del nord Europa per intercettare quel che ha l’aria d’essere l’ultima tournée di Neil Young. Tutte valide motivazioni, spettacoli degni nel mezzo di un calendario denso di appuntamenti per tutti i gusti. Eppure la musica, una certa musica, non c’è. C’è la sua celebrazione, c’è il suo riuso, l’usato sicuro generato dal partecipare a una delle infinite forme di memorialismo attraverso le quali adesso si scompone il panorama degli eventi musicali.

Ma è tutto un ripassare per luoghi noti, un rifare nella speranza (direi vana) di riassaporare il brivido della prima volta, di sfiorarne la nostalgia, si tratti di risentre gli Afterhours rifare “Ballate per Piccole Iene”, Fibra sgolarsi a ripetere rime memorabili, o De Gregori festeggiare i 50 di “Rimmel”. Manca – e non appena lo si realizza la cosa appare lampante, addirittura lancinante, per quel che vale – manca davvero un suono del presente, nativo della realtà a cui apparteniamo e nella quale viviamo immersi, ad essa connesso e da esso generato, un prodotto culturale che sappia essere anche popolare, capace di stimolare un pensiero critico, ma anche una fruizione puramente emotiva. Ci siamo arrivati poco alla volta, allo stesso modo in cui una candela va allo spasimo e si consuma prima di spegnersi, ma alla fine è successo: come iceberg, la realtà e la musica si sono distanziati tra loro, la prima costellata, costipata di drammi, la seconda incapace di reagire, adeguarsi, rispondere o almeno descrivere. E siccome abbiamo tutti bisogno di musica, siamo cresciuti così, non sappiamo pensare di farne a meno, ci siamo messi a guardare all’indietro, all’idea di rivivere i momenti migliori del passato, a frequentare gli “anniversary tour”, le reunion, i remake. E intanto il presente è confinato in un angolo remoto, un sottoterra quasi invisibile ai più, e anche qua sotto forma di una musica che si presenta ansimante, balbettante, confusa, come non sapesse più come adeguarsi alla lubrificata velocità con la quale gli scenari si modificano, gli scenari della nostra vita cambiano.

C’è qualcosa di più malinconico, inutile e artificioso di uno di quegli show televisivi che si propongono d’essere vetrine dei successi dell’estate, che in effetti sono tutt’altro, proposte attonite e sfuocate di artisti che hanno smarrito il proprio auspicio di riconoscibilità, preda di aspirazioni disordinate a un successo come traguardo che oscura ogni altro significato del fare musica. Non è un caso che in questa estate del 2025 sia spuntato, poi frettolosamente messo a tacere, lo scandalo delle arene vuote, dei flop delle tournée, dei biglietti regalati per riempire le file di sedili deserti, degli artisti ingabbiati e ricattati dai management, di questa flagrante contraddizione tra forma e contenuto della musica dal vivo, nel frattempo rimodellata da esperienza in celebrazione, attraverso un’implacabile metamorfosi, promossa da media approssimativi e dall’industria. La stessa industria che, uscita boccheggiante dalla rivoluzione dello streaming semigratuito, ha puntato sull’instaurazione di una musica-shopping, un consumismo forzato a cui partecipare per esistere, per avere cose da raccontare, più che emozioni da provare. Eppure il piano ha funzionato male, se quest’estate si sta consumando senza avere un suono suo, solo raffiche di notti dimenticabili, costose, omologhe. La sensazione è che il consumatore casuale ora si limiti a prendere ciò che gli serve, per non disertare la questione ma sbadatamente, senza il coefficiente di aspettative e ragionamenti che una volta circondavano un momento musicale atteso. E che tanti, soprattutto tra i veterani, abbiano detto “no, grazie”, sottraendosi al rituale, sperando invano nella rappresentatività del loro gesto. “Non mi piacciono più i concerti” diceva qualche giorno fa un amico, così, tout court, riassumendo nella frase di diniego il suo silenzioso disgusto per ciò che di musicale sta – o non sta – succedendo in giro. Poi lo stesso amico ha acceso il suo stereo di pregio, e senza aggiungere altro, ha messo su un vetusto vinile, un prezioso album di Robert Wyatt. E d’improvviso la musica ha inondato la stanza, popolandola di richiami, scontri, voli, visioni. E nel torpore del pomeriggio estivo romano, siamo rimasti immobili, così, in attesa di chissà che. 

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