L'intervista

Clementino: "Alla riscoperta del mio rap, guidato da Verne, Hillman e Bukowski"

Raffaele Rossi

Il ritorno con il nuovo album "Grande anima", tra meditazione e letteratura. Con lo sguardo a Sanremo 2026. “Se non racconti chi sei non hai valore. La tecnologia? Vent'anni fa spedivi cassette alle case discografiche, oggi firmi subito un contratto”

In un’epoca in cui il rap spesso si dissolve nel chiasso digitale e nell’effimero, Clementino torna a raccontarsi con il suo nuovo album "Grande anima", un’opera intessuta di riflessioni che vanno oltre il ritmo e la rima, in cui la letteratura, la meditazione e un legame profondo con le tradizioni si fondono in un viaggio intimo e universale. Non è un caso che dietro questo ritorno, che omaggia la forza dello spirito umano, si celino le suggestioni della celebre trilogia marina di Jules Verne, una saga che tra il 1867 e il 1875 ha scandito i tempi di un’avventura tra scienza e natura, disperazione e speranza, dai confini della Patagonia ai mondi inesplorati di un’isola misteriosa. Clementino ammette di aver seguito "il flusso della mia vita, è nato tutto così naturalmente. Vengo da anni di turbolenza e ora ho riscoperto un nuovo Clemente. Mi sento come uno spirito guida", un’anima grande che si dipana tra versi e memoria, tra l’eco lontana delle sue radici e un presente che si fa pungente e critico. Come il capitano Nemo, Clementino esplora i propri abissi. E racconta questa esperienza in quindici canzoni frutto di un percorso profondo e personale che unisce musica, spiritualità e consapevolezza. Tanti gli ospiti nel disco - Gigi D'Alessio, Negrita, Settembre, Ste, Greg Rega, Calmo e Ugo Crepa – che saranno presentate il 20 novembre al Fabrique di Milano e il 28 dicembre al Palapartenope di Napoli. “Volevo riscoprire me stesso, per questo sono stato in viaggio per il mondo da solo – racconta Clementino al Foglio – tra India, Costa Rica e Giappone. Ho scoperto la meditazione e ho divorato tanti libri. Tutto Verne, James Hillman e Charles Bukowski. Erano tutti nel mio zaino”. 

   

Nel brano “Il codice dell'anima”, in cui ha inserito un monologo di Totò, è sempre ancorato alle tradizioni partenopee.

Provengo da una famiglia di teatranti e ho sempre seguito Totò. Lui e De Filippo sono sacri per me. Ho sempre visto tutti i suoi film e quando ho scoperto il discorso contenuto ne “Il più comico spettacolo del mondo” mi ci sono rispecchiato molto. Parlava di me.

  

In “Cielo e Terra” canta “Ma che ti credi che per fare l'artista si deve per forza fare la faccia bella con chi è giornalista”. Vuole spiegarci?
Questa frase è dedicata a quegli artisti che dicono cose finte. E un giornalista capisce sempre chi sei. Ti sgama se vuoi fingere di essere un nuovo Eminem oppure un nuovo Jim Morrison. Musica vuol dire verità, se non racconti chi sei realmente non hai valore.

 

“Giorni nostri” invece è nata a Compton, città nota per il gangsta rap di Dr. Dre, Coolio, Kendrick Lamar. Cosa crede di avere in comune con quel genere?
Assolutamente niente. Sono scemo e un po' sensibile, verrei fatto fuori subito. Sono troppo un bravo ragazzo ma faccio rap in quello stile. Ho lo stesso modo di pormi sul beat dei rapper di Los Angeles. E comunque rappo meglio di tanti fake.

  

In che senso?
Negli ultimi anni è emersa una nuova generazione di artisti che ha portato una ventata di autenticità nella musica, raccontando esperienze di vita reali, spesso difficili, vissute in prima persona. Questo è ciò che li distingue dai semplici cantastorie, cioè chi narra episodi che non ha mai neanche vissuto.

  

Può fare qualche esempio?
Artisti come Luchè, Geolier e Rocco Hunt sono l'esempio vivente che, anche partendo da situazioni difficili, la musica può diventare un percorso di riscatto e successo, un modo per salvarsi e ispirare gli altri a fare lo stesso. La loro forza sta proprio nel dimostrare che si può cambiare il proprio destino. Noi rapper siamo un esempio.

  

Il riscatto sociale non riguarda solo Napoli...
Non si tratta solo di Napoli ma sto parlando di tutti quei ragazzi e ragazze che vengono da contesti complessi di grandi città come Roma, Milano e altre, e che usano la musica per raccontare la loro realtà senza filtri.

   

Com'è cambiata Napoli oggi?
É sempre un manicomio ma non come parola negativa ma come u' burdell. Nel senso che noi abbiamo tanta energia, un ritmo frenetico, il Vesuvio che ci fa ballare continuamente. Negli ultimi anni è migliorata, tempo fa sembrava un'utopia passeggiare o comprare una maglia di Maradona ai Quartieri Spagnoli. Oggi è una delle zone più amate e visitate dai turisti e non solo.

  

Con la tecnologia crede che i giovani rapper abbiano più opportunità rispetto a quando lei ha iniziato?
La tecnologia offre tanto. Vent'anni fa dovevi registrare tutto su una cassetta e sperare arrivasse alla casa discografica a Milano. Ora fai video, registri una canzone e la pubblichi subito. E magari firmi un contratto. Poi ovviamente il vero test è quello di rimanere sull'onda. E se ci rimani hai vinto.

  

Nel 2026 festeggerà 20 anni dal suo album d'esordio “Napolimanicomio” e 30 di carriera. Ci aveva pensato?
Mamma mia ho fatto la muffa al microfono...

 

Quest'anno è stato ospite di Rocco Hunt nella serata dei duetti di Sanremo. La vedremo il prossimo anno in gara?
Mi piacerebbe veramente tanto partecipare. Anche perché il prossimo anno saranno passati 10 anni dalla mia prima partecipazione con "Quando sono lontano" nel 2016. Ma prima devo essere scelto da Carlo Conti e poi vediamo come andrà…