Fabri Fibra (Ansa)

sfumature di insofferenza

I protagonisti della scena rap soffrono la cappa dei social. Fibra insegna

Stefano Pistolini

Il rapper, che viene dalle cantine e ora è primo in classifica con “Mentre Los Angeles brucia”, approfitta del momento di esposizione per riaccendere la crociata: “Se avessi saputo che un giorno il mercato musicale si sarebbe retto su un’applicazione popolata da egomaniaci, avrei girato alla larga”. Voci contro l’appiattimento

Svariate sfumature di insofferenza. Il rapporto tra musica trap/rap italiana e piattaforme social non è tutto rose e fiori, ci sono anzi delle crepe e tanto vale andare a darci un’occhiata dentro. Ciò che presto salta all’occhio è una stanchezza nei confronti della disciplina forzata imposta dalla “vita da piattaforma”, ovvero dall’obbligo pressante imposto agli artisti di questa scena d’alimentare, senza soluzione di continuità, il continuum di presenza sui social, allo scopo di mantenere vivo il rapporto coi fans, e in buona sostanza, di esistere.  

I dubbi sempre più concreti su questa meccanica di partecipazione arrivano da coloro che hanno fatto in tempo ad assaggiare qualcosa di diverso: quelli considerati ormai “i grandi” della scena trap italiana, per lo più membri dell’ormai celebrata generazione-2016, l’anno attorno al quale vengono alla ribalta diversi dei personaggi che segneranno l’evoluzione di questo suono nelle stagioni successive. Per Ghali, Sfera Ebbasta, Tedua, Rkomi e la Dark Polo Gang, Instagram diviene il social di riferimento, le stories rappresentano gli appuntamenti imperdibili coi fan, lo scandire dei dissing generano l’ultima evoluzione della sottocultura dei fotoromanzi. Eppure questi artisti provengono e ancora si sono formati, almeno in parte, nella cultura analogica della strada, nell’estetica dei palazzi, hanno fatto in tempo a mantenere una dimensione fisica del rapporto tra chi produce e chi ascolta. Poi sono montati sul veicolo per la celebrità, perché nel frattempo la questione è diventata enorme e indispensabile, la rivoluzione nella musica è avvenuta, si è smesso di pagarla, si è orizzontalizzata, le regole sono state sovvertite e il canale energetico del mercato è diventato quello digitale. Quindi per costoro c’è un prima e un dopo, un tempo formativo e una partecipazione consapevole all’invenzione del nuovo gioco. Le community di teenagers consumatori, e presto non solo loro, scrollava, cercava, pretendeva video, post, storie e il rapper degli anni Venti ha imparato a esistere in favore di telecamera, mentre il confine tra artista e content creator diventava più labile e intinto negli energy drink. L’effetto è che gli ultimi arrivati a muovere i primi passi sulla scena sono degli esemplari diversi, puramente digitali, addestrati, preimpostati alle pratiche necessarie per trasformarsi in interpreti e strumenti di questa cultura. Era inevitabile che a una situazione del genere rispondesse una reazione di riflusso: adesso il digitale è il mainstream, il rap è stato il nuovo rock e la trap è il nuovo pop, il suono di Sanremo. E i maturi ragazzi terribili di ieri cominciano a recitare in modo sempre più perentorio il mea culpa: abbandono delle piattaforme, critica alla loro superficialità e alla pressione del confronto costante, ricerca della spontaneità e dell’autenticità perduta. Vadano a farsi fottere l’adesione alle tendenze, la competizione che è materia prima dei social, aspirazione alla riconnessione con le identità originali. Perfino ricerca di un contatto genuino, “reale” con il proprio pubblico. Certo, questi sono soprattutto propositi, espressione di frustrazioni che vanno tenute a bada se i comandamenti del mercato impongono ben altro. Però a forza di ripeterla, questa voglia di fuga dai social sta assumendo il formato di un coro, che denuncia la tossicità di un’atmosfera di cui si è smarrito il senso e il controllo. Ormai è ricorrente leggere Sfera Ebbasta che esprime il desiderio d’estraniarsi dai social, preferendo concentrarsi sulla musica e sul privato (e fate caso: Sfera è semi-scomparso dal chiacchiericcio che circonda questi paraggi della società dello spettacolo). Oppure Ghali sottolinea il suo disgusto per la superficialità e la competizione che regnano su queste piattaforme. O salta fuori la disillusione per queste avventure confessata nelle interviste degli ex-DPG, o Rkomi dice che la sua priorità adesso è sottrarsi alla pressione dei social.

Però c’è una figura che prima delle altre (lui è uno che spesso arriva prima a certe affermazioni) ha cominciato a combattere la battaglia per la liberazione dalla cappa digitale: il quasi cinquantenne Fabri Fibra, uno che viene dalle cantine e che ora è primo in classifica con “Mentre Los Angeles brucia”, approfitta del momento di esposizione per riaccendere la crociata: “Se avessi saputo che un giorno questo mercato musicale si sarebbe retto su un’applicazione popolata da egomaniaci e scrocconi, avrei girato alla larga”, dichiara. Nel mezzo dei concerti Fibra definisce i social “armi di distrazione di massa”, denuncia il loro contribuito ad aumentare l’odio online, racconta le minacce che ogni giorno raccoglie dalle piattaforme. In sostanza fa una cosa ormai insolita: critica sociale. Rimette il pensiero al centro del discorso, al posto dei desideri e dei prodotti. Come ai tempi dei Sangue Misto o di “Fight da faida”. Alla faccia di Manuel Agnelli che si limita a constatare che il rap oggi fa schifo. La sua è una sfida difficile e le puntate sono contro di lui. Ma l’interesse di ciò che ne potrebbe nascere possiamo tranquillamente definirlo elettrizzante.
 

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