
Foto Ansa
(1931-2025)
È morto Alfred Brendel, il pianista del mistero e dell'ironia
Il grande musicista se ne va a 94 anni lasciando tutti in silenzio. Ha percorso la sua carriera alla ricerca di una bellezza capace di dare senso a un mondo assurdo
Alfred Brendel se ne va a 94 anni lasciando tutti in silenzio. Tre ricordi riaffiorano immediati dopo aver letto la notizia. Nel 2008 al Teatro alla Scala il concerto d’addio con musiche di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert. Nel 2011 all’Università “Aldo Moro” di Bari il conferimento della laurea honoris causa in Lingue e letterature moderne, seguito subito dopo nel foyer del Teatro Petruzzelli dalla lettura di poesie scelte e presentate dallo stesso autore. E da ultimo, nel 2014, la lettura del suo Abbecedario di un pianista edito da Adelphi. Da sempre ho ascoltato le sue incisioni, sorriso della sua costante presenza a Mantova per il festival di Trame Sonore, tra il pubblico come uno spettatore qualunque. Quest’anno però a Mantova non si era presentato, seguendo (pare) il divieto del suo medico.
In tutte le sue apparizioni, negli scritti, nelle tantissime lezioni che ha dato agli alunni e al pubblico brillava l’artista capace di un’ironia stupefacente, quella che nasce dalla capacità di leggere nella realtà il mistero e tradurlo con un movimento sornione degli occhi, una parola detta quasi per caso, la magia di un suono inaspettato.
Non proveniva da una famiglia di musicisti e nemmeno aveva avuto un percorso accademico lineare. Amava scrivere sonetti, dipingere, disegnare. Era immerso nell’arte sempre, alla ricerca costante di una bellezza capace di dare senso a un mondo “assurdo” a cui si poteva sopravvivere solo guardando il lato comico. Un uomo incapace di essere indolente, sempre vivo, reattivo, con un intelletto raffinato dove convivevano ai massimi livelli erudizione e riflessione. Il pianoforte era la sua vita, un mezzo privilegiato per comprendere e approcciare il reale. Le registrazioni hanno come fil rouge quel costante suo fuggire dai cliché e dai pregiudizi. Il classicismo viennese sotto le sue mani mostra quella maliziosa libertà che nessuno leggeva (e forse legge) tra i pentagrammi di Haydn e Mozart. Il suo Schubert – lo definirei L’altro Schubert, come il titolo di un famoso volume di Sergio Sablich – non scadeva mai in un Romanticismo melenso o in un rigido attaccamento ai topoi classici. La sua capacità d’ironia e di non prendersi troppo sul serio gli permetteva di inabissarsi anche negli anfratti più bui, illuminandoli con una lettura sempre nuova. E poi la capacità di ascoltare. Amava registrare dischi per poter ancor meglio individuare su che cosa lavorare, dove migliorare. Amava ascoltare altri musicisti, fossero anche sconosciuti. E poi la lettura, le opere studiate ma non eseguite. In un articolo di qualche anno fa sulle colonne del Guardian, Brendel ha lasciato una sintesi fulminate della sua vita e del suo orizzonte: “Guardandomi indietro, faccio fatica a capire come abbia fatto a fare tutto: suonare, scrivere, osservare, vivere, amare. Anche se non sono mai riuscito ad annoiarmi o a restare inattivo, ho sempre dormito a sufficienza. Pur amando profondamente il mio lavoro, non sono mai stato spinto da un’ossessione, e sono sempre salito sul palco di mia spontanea volontà. Alla fine della mia carriera concertistica, non ho versato una lacrima. Come si concilia tutto questo? La vita, nel complesso, è rimasta piuttosto misteriosa”. Il senso del mistero. Forse è proprio questo che rende un uomo eccezionale, quasi immortale.