Il maestro Carlos Kleiber (1930-2004), dirige la Bayerisches Staatsorcherster a Ravenna nel 1997. (Foto Ansa)

Oltre lo streaming

Col suono di poi

Roberto Raja

Evviva, torna la musica dal vivo. Un libro e il ricordo di un geniale direttore per capire quanto ci è mancata l’emozione dei concerti

Un successo che aveva avuto addirittura dell’irreale. Una registrazione privata dà testimonianza delle ‘urla inumane’ che seguirono il finale della Settima sinfonia…”. Un concerto d’altri tempi, è proprio il caso di dire dopo tutti questi mesi di pandemia, stagioni sospese e sale chiuse. Ora per fortuna si può ricominciare, sia pure con il pubblico a ranghi ridotti e con i calendari da riorganizzare. E forse noi spettatori, distanziati e con le nostre mascherine, rientreremo nelle sale e nei teatri con qualche circospezione. Non sarà tutto come prima, per il momento. Anche nella migliore occasione, anche a vederle mezze piene, le platee in fondo saranno mezze vuote. Ma si ricomincia, e torneranno le emozioni, anche se non accompagnate da “urla inumane”. Nella stagione dell’astinenza, poche righe di un libro di Charles Barber, Carlos Kleiber. Vita e lettere, pubblicato di recente dal Saggiatore, sono state la madeleine di una straordinaria esperienza d’ascolto – sì, proprio quella che finì con un’esultanza quasi belluina – o almeno di quanto ne rimane nella memoria.

 

E più in generale l’occasione per ripensare a quanto ci è mancata la pienezza della musica dal vivo. Che non esclude l’altra a cui siamo avvezzi: la musica riprodotta, pronta da scegliere, giudicare e amare, sempre disponibile, e che oggi, nel suo stato liquido pressoché inesauribile ci può aiutare a conoscere e a capire, ad allargare gli orizzonti sonori (fatta la tara della sua prevalente funzione d’arredo e di compagnia). Ma altro raccontano l’esperienza delle note che si fanno realtà sonora davanti a noi, la percezione diretta della musica nel momento della sua rivelazione, il qui e ora dell’esecuzione, con gli interpreti in scena e il pubblico in sala, con i silenzi che precedono la prima nota e gli applausi finali (sono la nostra misera parte nel rito, ma avete fatto caso ai musicisti quando finiva uno di questi concerti in live streaming? Volti spaesati, sguardi nel vuoto della sala, forse solo un grazie a mezza voce del direttore).

 

E con un’orchestra, a maggior ragione: il fatto che possa suonare anche solo davanti ai microfoni di una sala di registrazione non può farci dimenticare che il suo repertorio dall’epoca classica in poi, ovvero la maggior parte del repertorio che ascoltiamo in una sala da concerto, è stato pensato e scritto per essere eseguito davanti a un pubblico, fisicamente presente, e si nutre anche di un linguaggio e di una forma che sembrano proprio volere un interlocutore, di artifici retorici (dice qualcosa l’inesausto finale della Quinta di Beethoven?) che un ascolto virtuale, mediato dalla distanza, potrebbe addirittura svilire. Poi, nella sala da concerto, tanta routine anche lì, è vero, ma solo lì l’ebbrezza del momento, un vissuto irripetibile e impossibile da registrare se non nello scombinato archivio della memoria, dove restano le tracce più forti: la scoperta di un brano, la bellezza che emerge improvvisa, il lampo di luce su una frase che si pensava di conoscere, lo choc di un passaggio che si dava per scontato. E l’inaudito, e l’idea di una consonanza perfetta, senza alternative possibili, tra il pensiero musicale e la sua realizzazione. Qui e ora. Liste, possibili: credo che ogni frequentatore di teatri e auditorium abbia la propria. Nella mia c’è anche, tutta intera, quella serata dalle “urla inumane”. Troppo? Forse.

 

Di sicuro, passati quarant’anni, ricordo l’esplosione di entusiasmo e di commozione, attribuibile sì alla Settima di Beethoven, ma soprattutto a quel Beethoven e al fenomeno – tale lo ritenevamo tutti, credo, nella platea, nei palchi e nelle gallerie del Teatro alla Scala – che dal podio gli aveva dato vita. Gli applausi andavano anche all’orchestra, la London Symphony, che aveva meravigliosamente composto quel tessuto sonoro, da Weber a Schubert e infine Beethoven: ascoltare una vera orchestra sinfonica, dal palcoscenico e non su un disco, in quegli anni era un po’ una rarità, anche nelle sedi più illustri (a Milano solo qualche mese più tardi si sarebbe costituita, con Claudio Abbado mentore e guida, la Filarmonica della Scala). Ma è indubbio che la sera del 5 giugno 1981 l’emozione dell’ascolto scaturisse, o si volle far scaturire, dal direttore. Carlos Kleiber aveva cinquant’anni e godeva da qualche tempo, ma in modo tutto suo, dello status di celebrità da un capo all’altro della scena internazionale. Una meteora che si era rivelata al pubblico italiano, nella sua definizione più ampia, il 7 dicembre del 1976, quando aveva diretto Otello di Verdi per l’inaugurazione della stagione della Scala. Potenza del live streaming, ebbene sì. Non si chiamava così, naturalmente, era una semplice diretta tv. Ma, capirete, era la prima volta che un’opera veniva ripresa dalla Rai e trasmessa in diretta, in prima serata, e in mondovisione (alla fine raccolse qualcosa come 24 milioni di telespettatori).

 

L’esordio alla Scala era avvenuto l’anno precedente con un memorabile Rosenkavalier, opera del resto tra le sue predilette (e che diresse tutto d’un fiato senza accorgersi di nulla anche la sera del 6 maggio 1976, quando il terremoto del Friuli fece oscillare paurosamente il lampadario del teatro e indusse non pochi spettatori a precipitarsi fuori). Rintuzzati poi con la sua incandescente lettura dell’Otello i mugugni di qualche vestale verdiana e di alcuni contestatori della piazza abbarbicati nel loggione, a Milano aveva diretto nelle stagioni successive altri due capolavori interpretativi: un Tristano e Isotta che fece impazzire di prove gli orchestrali scaligeri, peraltro ormai soggiogati dal suo carisma, e una Bohème con Luciano Pavarotti, oltre a una ripresa dell’Otello, sempre con Plácido Domingo protagonista. Ma ad alimentare le attese di quel concerto, il desiderio dell’esserci, di partecipare a una qualche forma di rito, non erano solo le cronache musicali (per qualcuno più avvertito anche quelle che venivano da Monaco e Vienna, da Londra e dal Giappone). Era anche la fredda, si fa per dire, testimonianza del disco. Nel 1973, a quarantatré anni, “vincendo un’inibizione radicatissima”, come sottolinea Barber, Kleiber si era affacciato in una sala d’incisione per la registrazione del Franco cacciatore di Weber e in quell’intervallo di tempo, fino all’81, aveva consegnato al disco alcune interpretazioni giudicate subito di riferimento.

 

E non erano titoli secondari del repertorio classico e romantico, pezzi da scoprire o riscoprire: erano la Quinta e la Settima sinfonia di Beethoven, l’Incompiuta di Schubert, la Quarta di Brahms e, per il teatro musicale, Traviata e Tristano e Isotta (un caso a parte, quest’ultimo, frutto di un tradimento mai perdonato dal direttore: dopo lunghe sedute di prova Kleiber si scontrò con i cantanti, venne quasi alle mani con il tenore e abbandonò lo studio di registrazione. Il produttore, che aveva registrato tutte le prove, riuscì a confezionare l’opera nella sua integrità e a metterla sul mercato. Kleiber lasciò la Deutsche Grammophon e non mise più piede in uno studio di registrazione). Questi erano i gioielli di Kleiber che potevamo ascoltare nel salotto di casa. Questi, e pochi altri, erano i gioielli di Kleiber. Perché il direttore più corteggiato e amato del momento, che conosceva pressoché tutta la letteratura musicale, aveva un repertorio che si era atrofizzato nel tempo: tre sinfonie di Beethoven (diresse una sola volta la Sesta, che venerava ma trovava “di una difficoltà immensa”, tanto che gli sembrava che nessuno fosse riuscito a renderle giustizia), due di Mozart (e mai una sua opera), due di Schubert, due di Brahms.

 

Niente Schumann, niente Bruckner né Mahler (eccetto un Canto della terra nel ‘67), di Ciajkovskij solo La bella addormentata, niente Debussy né Stravinskij (con l’eccezione di un Oedipus Rex giovanile). Andava quasi meglio con il teatro d’opera, che era stato l’asse portante dei suoi voraci anni di apprendistato – a Düsseldorf, Zurigo, Stoccarda – fitti di melodramma, balletti e operette. Accomunati dal côté tutto viennese i due titoli che non si stancò mai di dirigere: il Rosenkavalier di Richard Strauss e Il pipistrello di Johann Strauss. E fu proprio Vienna il teatro del suo apogeo mediatico, con i due Concerti di Capodanno del 1989 e del 1992: ancora qualche milione di spettatori alla tv e il pubblico nella grande sala del Musikverein, a scandire con il battimani, com’è tradizione, la conclusiva Marcia di Radetzky e ad applaudire gioioso. Era del resto una gioia tutta da condividere, perché Kleiber dirigeva quei valzer, quelle polke, quei galop “come ciò che sono, grandissima musica, ma insieme con una sprezzatura del gesto fatta di anticipi, ‘rubati’ strepitosi e soprattutto d’una tale compenetrazione fisica con quei ritmi che sembrava vederlo librarsi a un metro da terra”, scrisse alla sua morte Paolo Isotta. Già allora, quando lo ascoltammo alla Scala, facevano parte del mito Kleiber – la parte razionale del mito – la sua sensibilità e l’estro, la bellezza e l’incanto del gesto (nel poco e nel tanto: guardatelo dirigere a Vienna gli amati Strauss, come piaceva a Isotta, e pure la memorabile Settima con il Concertgebouw di Amsterdam).

 

E ci catturavano l’energia che riusciva a infondere all’orchestra e le tensioni e la morbidezza del fraseggio, la capacità di analisi che svelava le minime increspature del discorso e nello stesso tempo la padronanza della visione d’insieme, dell’architettura dell’opera che si manifesta nel tempo (Barber per questo gli adatta una definizione che Josef Krips diede di Furtwängler: “Quando batteva la prima misura di una grande opera, la sua mente era già corsa all’ultima”). Presto, a corroborare il mito arrivarono anche gli effetti del tarlo che gli rodeva dentro: l’intransigenza con sé e con gli altri, l’insicurezza, almeno fino a un momento prima di salire sul podio, combinata col demone della perfezione, l’ombra costante del padre Erich, un altro grande della direzione d’orchestra del secolo, primo interprete del Wozzeck di Berg, che per il figlio avrebbe voluto un destino diverso da quello musicale e al quale Carlos si era in qualche modo ribellato, pur continuando ad ammirarlo e a sentirsene forse inferiore, seguendo paradossalmente le sue stesse tracce. Insieme all’insofferenza per la routine e per lo star system (che combatté ad armi pari, alzando sempre di più l’asticella del proprio cachet), fu tutto questo che lo portò progressivamente a negarsi – e a essere tanto più cercato e desiderato –, a cancellare concerti anche all’ultimo momento, a scappare da prove ormai avviate per un dissidio con un cantante o per un’incomprensione anche minima ma senza via d’uscita con un’orchestra.

 

Diresse pochissimo, solo in due concerti, i Berliner Philharmoniker per non fare un torto a Karajan. Ruppe anche con Michelangeli, nonostante i fili sotterranei che li legavano (il “silenzio ostinato” del pianista italiano “gli ricordava il padre, e con lui una freddezza che non poteva soffrire”, dice il produttore Cord Garben): avevano eseguito insieme il Quinto concerto di Beethoven ad Amburgo nel ‘73, due anni dopo entrarono in sala d’incisione per registrarlo e ne uscirono con la più grande interpretazione dell’Imperatore che non c’è mai stata. Folgorato da un concerto di Kleiber trasmesso in tv, nel gennaio del 1989 Charles Barber, allora studente di direzione d’orchestra a Stanford, scrisse all’inavvicinabile direttore per chiedergli di poter fargli da assistente. Kleiber rispose, e se gli eventi non presero mai la piega immaginata dal giovane americano, fu comunque l’inizio di una curiosa e unica corrispondenza. Riproposta in una parte cospicua del libro, vi si colgono frammenti anche inediti della personalità dell’uomo e del musicista. Sappiamo che Kleiber era schivo (non diede mai un’intervista) e timido tanto da imbarazzarsi per le lodi teatrali che gli riservava quell’istrione di Bernstein; umbratile sino al furore nel lavoro con l’orchestra, ma anche solare e generoso. Conosciamo meno la sua ironia fanciullesca e il suo sarcasmo a volte feroce (ce l’aveva con Lincoln e Gandhi, oltre che con il collega Celibidache). La sua passione per Emily Dickinson, che lo portava a scherzare sull’idea di essere la reincarnazione di Carlo, il suo cane. E quella per i cartoni di Tom & Jerry e per i travestimenti (a certe repliche del Pipistrello a Monaco, durante il carnevale bavarese, si presentò sul podio abbigliato da Boris Becker o da Osho).

 

La fascinazione che esercitò su di lui il taoismo del Zhuang-zi letto nell’edizione italiana di Adelphi (“una meraviglia autentica che è fonte per me della gioia più grande”). E le sue predilezioni musicali, che qui affiorano dai commenti alle registrazioni pirata in forma di videocassette che Barber gli spediva numerose e che lui divorava, anche solo per curiosità. Da sempre, nella sua ansia di non conoscere mai abbastanza l’intima verità di un’opera si preparava studiando le edizioni originali e i manoscritti e ascoltando gli altri, soprattutto i “venerati maestri”. In vista di una serata con Alfred Brendel, ha ricordato il pianista, ascoltò 24 interpretazioni del Quarto concerto di Beethoven. Con Tidal o Qobuz sarebbe stato felice. “La carriera di Kleiber – scrive Barber nelle pagine finali del libro – iniziò e si concluse nell’oscurità: con un concerto diretto sotto falso nome (Karl Keller, nel 1955 a Potsdam), e con un concerto a Cagliari”. Era il 26 febbraio 1999, la seconda volta che ascoltavo Carlos Kleiber dal vivo, e non potevo sapere che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Alcuni critici dissero che la sua ispirazione era un poco appannata. A me sembrò meravigliosa l’orchestra della Radio bavarese. Della Quarta e della Settima di Beethoven non so più che dire. Di quella serata ricordo solo i contorni. Croce e delizia della musica dal vivo. Credo che adesso andrò a riascoltarmi i suoi dischi. O lo guarderò di nuovo dirigere alla tv, nel dvd di Amsterdam, per quanto sgranato.

 

Ps: “Qui a Berlino, dirigendo la Nona di Bruckner, ho capito i limiti tremendi dello streaming. È un po’ come se quella sinfonia terminasse in cielo, e noi musicisti, storditi dal clima di sospensione conclusivo, siamo rimasti soli sulla scena a guardarci l’un l’altro. Mancava l’interlocutore-chiave: il pubblico. La musica dev’essere un dialogo vivo, concreto, e tornerà presto a risuonare per platee reali” (Zubin Mehta mercoledì scorso a Repubblica).