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il concerto

Il mistero della musica, che a ogni esecuzione “accade” in modo nuovo

Stefano Picciano

Un concerto che ha reso evidente la meraviglia della musica nella sua irripetibilità, tra Schubert e Bruckner. Ogni esecuzione è un atto unico, da accogliere con rispetto e ascolto partecipe

Con l’esecuzione di due capolavori musicali l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, diretta da Fabio Luisi, ha coronato all’Auditorium di Torino una stagione ricca di eventi di rilievo. Questa volta, più che un invito a inoltrarci nelle suggestive vicende della loro genesi, rivolgere l’attenzione ai due movimenti dell’Incompiuta di Schubert e alla Settima Sinfonia di Anton Bruckner – specie nell’espressivo, intensissimo Adagio che è uno dei vertici compositivi dell’autore – ha destato in noi il desiderio di soffermarci sul più affascinante mistero dell’arte: la sua polisemia, la sua inesauribilità. “Quando volevo cantare l’amore non riuscivo a esprimere che il dolore e quando provavo a intonare il dolore esso si trasformava in amore”, scrisse Franz Schubert: così è la musica, quell’arte che viene scritta precisamente sulla carta ma che al contempo rinasce in sembianze sempre nuove, divenendo sorgente di ciò che in quei segni non può essere fissato. Appariva chiaro, ascoltando il concerto, che il confronto tra le interpretazioni di una medesima pagina (le sue differenti letture, le molteplici varianti esecutive, le innumerevoli sfumature espressive) accresce la meraviglia per l’infinita profondità dell’opera e, di conseguenza, il rispetto per ogni singola esecuzione come una delle manifestazioni possibili di quell’enigmatico punto sorgivo che è la partitura. Ogni critico, per questo, quando scrive dell’una o dell’altra esecuzione ha il compito di esplicitare dettagli interpretativi e mostrare aspetti altrimenti destinati a non essere colti, ma deve sempre evitare il rischio di assumere un tono incline a definire e concludere, rifuggendo l’insidiosa tentazione di ergersi al di sopra di quel delicato lavoro altrui che è l’interpretazione.

E’ ciò che Piero Buscaroli, con parole che paiono queste sì definitive, additò descrivendo “quel frettoloso miscuglio d’invidia e d’ignoranza con cui tanti sbrigano lunghi anni di proba fatica altrui”: il musicologo bolognese citava in quel caso le parole di Francesco Mario Colombo, che aveva accennato all’“impressione grottesca che produce il critico quando elargisce le sue valutazioni e i suoi giudizi archivianti la pratica”. Meraviglioso e preciso. Bisognerebbe rimanere sempre in punta di piedi, dinanzi al lavoro altrui, come colui che incontra qualcosa di ancora sconosciuto: perché – come abbiamo sentito al concerto – inedita è quella esecuzione, nuovo è il riaccadere della musica. Il fatto è che, per cogliere il nuovo, bisogna in qualche modo uscire da sé, e approssimarsi con curiosità a un fenomeno che – come scrive Hannah Arendt – “corteggia l’attenzione e l’interesse dei presenti” e “si esibisce in tutta la sua contingenza, non imponendo una verità indiscutibile, ma sperando nell’accordo e nella persuasione”. La natura stessa della musica comporta che ogni esecuzione sia differente dalle migliaia di altre letture che, della stessa opera, sono state fatte, e proprio qui risiede il fascino più profondo di quest’arte: si tratta di soffermarsi con rispetto davanti a questa irriducibile alterità dell’opera, rimanendo tesi a cogliere quei dettagli, quei particolari, quelle talora impercettibili sfumature che rendono l’esecuzione qualcosa di mai accaduto prima.

Perché, come diceva Gustav Mahler, “nella partitura è scritto tutto, tranne l’essenziale”: che cosa sia questo essenziale è il problema fondamentale della musica. Unaussprechlich, inesprimibile. Ciò che non può essere scritto sulla carta. Giungere alla serata dell’Orchestra Sinfonica Nazionale carichi della frequentazione di tante altre letture ha permesso di cogliere, una volta di più, il mistero della musica: quell’infinita polisemia che è per ogni ascoltatore attento un invito ad entrare nell’idea dell’interprete, di colui cioè che si assume la responsabilità, dopo una vita di studi, di far rivivere l’opera, proprio in quell’istante, per noi. Un dono dinnanzi al quale bisogna porsi con gratitudine. E, perché no, anche in silenzio.